Al momento stai visualizzando Il caso Mattei 3. Dentro le mura

In chi si è mobilitato tra il 7 e l’11 giugno scorsi c’era la consapevolezza di non voler difendere il Centro Mattei in quanto tale, ma solo di impedire il trasferimento forzato di circa 190 persone che in quei giorni ancora ci vivevano e, insieme, il licenziamento di oltre 40 lavoratori.

Ex Centro di identificazione ed espulsione, chiuso nel 2013, il Mattei riaprirà come hub regionale nell’estate del 2014 per diventate, con il calo degli sbarchi, campo di media e lunga permanenza. Dai trecento ospiti iniziali arriverà ad ospitare fino a mille persone. Le alte mura e i cancelli di ferro non gli hanno mai tolto le fattezze della prigione più che di un centro di accoglienza.

Gli operatori che sono passati dal Mattei hanno dovuto fare i conti più di altri con l’intrinseca ambiguità del loro ruolo: la convivenza tra mandato istituzionale e le loro spinte solidaristiche, tra la funzione di controllo e lavoro di cura, tra esigenze di emancipazione degli ospiti e dipendenza indotta al sistema dell’accoglienza. Contraddizioni che si possono attraversare – come scrive un gruppo di ex lavoratori del centro – con mente desta e cuore vigile, per attenuarne gli effetti disumanizzanti. Per meglio comprenderle, per meglio raccontarle.

P.S. L’intestazione ai re Magi fa riferimento a un commento del Ministro dell’interno che ha definito il Mattei “più una stalla che un centro d’accoglienza”. (Luigi Monti)

 

Cari Re Magi,

la stalla in via Mattei 60 è temporaneamente chiusa per ristrutturazione. Era anche ora! Senza tv via cavo, senza piscina, senza aria condizionata, senza riscaldamento, senza wifi ma che stalla era?

Vi raccontiamo la sua storia, in un giorno è stato aperto e in due è stato chiuso. Nel mezzo del cammino della sua vita, alcune persone ci hanno lavorato e tante altre ci hanno vissuto. Sicuramente molti altri – la maggior parte – lo hanno conosciuto. E se conosci, non hai paura. Da un Cie è diventato un centro di accoglienza, un hub, una piccola città nella città di Bologna, un mondo a sé, dove ognuno (nonostante tutto) si è sempre sentito al sicuro. Dall’emergenza, infatti, è diventato una casa per molti. Una casa non ristrutturata da chi, invece, avrebbe dovuto occuparsene. Come operatori, quotidianamente abbiamo lavorato, sudato, parlato, mediato, spiegato e ascoltato cento lingue, cercando di comprendere chi avevamo davanti. Allo stesso tempo, abbiamo cercato di spiegarci, come persone e come comunità. Ci siamo fatti portatori di risposte e giustificato decisioni, politiche e pensieri che non ci appartenevano e che erano responsabilità di altri; direttive che avremmo voluto cambiare, ma sulle quali non avevamo alcun potere.

Un posto amato e odiato. Un limbo di contraddizioni, di speranze e relazioni. Si può quasi giustificare l’ignoranza nel comprendere un luogo di cui, dall’esterno, si vedono solo le sbarre e il filo spinato. Ma dopotutto, non è altro che la semplificazione di un paese che vede l’apparenza e non la sostanza.

Qui, a parlare, siamo pochi operatori, che hanno aperto, visto crescere e vissuto intensamente un microcosmo del mondo, che ha visto coabitare tante nazionalità, non solo africane, come qualcuno ha detto. Di certo non ci vogliamo arrogare il diritto di farci portavoce di tutti gli operatori e le operatrici che hanno avuto l’opportunità di vivere questa esperienza lavorativa. Ma non possiamo neanche tacere di fronte a tanta dequalificazione professionale, che gira nelle menti e nelle parole di chi non vuol guardare e di chi non vuol conoscere. Il mondo dell’accoglienza è fatto di persone qualificate, professionisti, portatori di competenze e conoscenze. E l’hub Mattei è stato portato avanti giorno e notte da persone che per poco più di 1000 euro al mese hanno cercato di trasformare un carcere in un posto accogliente e non solo un luogo di transito. Integrazione, mediazione, gestione dei conflitti, lavoro di squadra e gestione dell’operativo quotidiano stancavano, facevano arrabbiare, ma allo stesso tempo gratificavano. Non è stato facile lavorare in una struttura fatiscente, nata con altre finalità e trasformata in centro di accoglienza. Infatti tra di noi c’è chi è rimasto e chi se n’è andato, ma ne difendiamo le possibilità di crescita non solo emotiva e umana, ma anche professionale che sono state sperimentate.

Ci rivolgiamo a tutti voi, non importa che siate privati cittadini o istituzioni, per dirvi che l’accoglienza non la fa un luogo, ma la fanno le persone: i lavoratori e le lavoratrici del sociale.

 

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