Al momento stai visualizzando Che fare dopo i decreti sicurezza
illustrazione di Tomi Ungerer

Quello che segue è un estratto di un articolo uscito sul n. 60 della rivista “Gli asini”.

Per chi opera a vario titolo dentro il sistema di accoglienza, è necessario chiedersi anzitutto, in maniera autocritica, quanto il proprio operare negli scorsi anni sia stato incisivo. Inoltre, è probabilmente il momento di incominciare a pensare “dall’interno” ma stando con la testa fuori. Il che vuol dire, ad esempio, rendere i servizi costruiti in questi anni attraverso i fondi pubblici destinati a vario titolo all’accoglienza accessibili a tutta la popolazione migrante; consapevoli del proprio ruolo, esercitare resistenze rispetto alle molteplici istituzioni che si hanno di fronte (statali, mediche, giuridiche, datoriali), a partire dal rispetto del proprio lavoro e professione; uscire da una bolla che in non pochi casi porta a costruire un’immagine di se stessi come eroi o martiri. Occorre soprattutto tornare a rivendicare con chiarezza e forza, per i migranti, il diritto alla mobilità, alla scelta del posto in cui vivere, in modo regolare e, per quanti ne hanno necessità, con dei servizi di assistenza (sanità, mediazione, ecc.), che è altra cosa dall’assistenzialismo. Per far ciò occorrono tuttavia delle scelte che sono il frutto di una consapevolezza che è invece forse ancora troppo acerba tra chi lavora in questo settore. Oltre a riconoscersi ed essere riconosciuti/e come persone che esercitano una professione e un ruolo sociale, è il momento di acquisire coscienza di sé come lavoratori e lavoratrici, titolari di diritti esigibili attraverso specifiche rivendicazioni e lotte. Queste lotte non riguardano né una presunta indispensabilità di questo ruolo (e ancor meno di chi lo ricopre); né, d’altro canto, un attaccamento al posto di lavoro inteso solo come salario, benché totalmente legittimo. Queste lotte dovrebbero essere universali e comuni, perché non è più sostenibile, per fare solo un esempio, la contraddizione che porta gli operatori ad accompagnare i beneficiari presso le sedi sindacali e poi constatare la totale assenza di rappresentanti o assemblee sindacali nelle cooperative, ancor più ai tempi dei decreti sicurezza e dignità. Rifondare l’accoglienza vuol dire allora non già ripensare uno specifico e delimitato settore dei servizi alla persona, ma rifondare e praticare un welfare aperto, equo e includente per tutte le persone.

Fuori dal sistema di accoglienza, ci sono già molti esempi di lavoro virtuoso di e con i migranti, non solo richiedenti asilo. Accoglienza in famiglie e case private, scuole di italiano in città e campagne, occupazioni di case, sportelli di assistenza e consulenza, cliniche legali, progetti economici mutualistici, solidali e di base, recupero di spazi pubblici: le pagine degli Asini hanno spesso raccontato pratiche di questo tipo. È su queste pratiche che secondo noi è necessario fare leva ora, cercando di alzare la testa, coordinarsi e, soprattutto, legare le proprie pratiche a una discussione più ampia e più generale su quali politiche vogliamo sostenere e rivendicare.

È necessario – come alcuni hanno già cominciato a fare – discutere, ragionare, collaborare con i migranti che sono in Italia da più anni e che hanno altri tipi di problemi (l’accesso alla cittadinanza; lo ius soli per le seconde generazioni; le discriminazioni e lo sfruttamento lavorativo…) e cercare alleati tra loro e le loro associazioni. Con la consapevolezza, da un lato, che spesso gli obiettivi e le visioni del mondo sono differenti ma che, dall’altro lato, il loro contributo è centrale se si vuole evitare di parlare di migrazioni solo tra “autoctoni”.

Di più, è necessario essere consapevoli che un movimento che rivendica diritti per i migranti non può concentrarsi solo sull’“accoglienza”. Ma deve porsi il problema di costruire (o collaborare con) altri movimenti. È necessario ricostruire un movimento pacifista, contro tutte le guerre, per evitare che delle persone siano costrette a partire a causa di conflitti: una ricerca dell’Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa ci ha recentemente ricordato che, poco più di una ventina d’anni fa, al tempo della guerra nella ex-Jugoslavia, decine di migliaia di profughi furono ospitati in Italia al di fuori di qualsiasi intervento delle istituzioni, ad opera di organizzazioni di base che erano allo stesso tempo impegnate nel movimento pacifista, che interveniva direttamente nei territori in conflitto dall’altro lato dell’Adriatico (vedi l’articolo di Marzia Bona su Meridiana, n. 86, 2016). È necessario un movimento ambientalista, consapevole che molti migranti nei prossimi anni saranno costretti alla mobilità a causa dei cambiamenti climatici, come la siccità nell’Africa subsahariana. È necessario ricostruire quello che pochi anni fa era il movimento altermondialista, e prima ancora terzomondista, che rimetta l’attenzione sulle politiche globali che creano disuguaglianze tra gli stati, sulle multinazionali dei paesi occidentali e della Cina – anche italiane – che sottraggono risorse e devastano i territori del Sud del mondo, sostenendo così gli stili di vita consumistici dei cittadini dei paesi ricchi e, allo stesso tempo, obbligando molti cittadini dei paesi poveri a diventare migranti (altro che “aiutiamoli a casa loro”!). È necessario che il movimento per i diritti dei migranti stringa relazioni sempre più forti con i sindacati dei lavoratori – come è già avvenuto e sta avvenendo, soprattutto ad opera dei sindacati di base – al fine di contrastare le discriminazioni subite dai lavoratori non italiani e allo stesso tempo la stessa crescente debolezza dei lavoratori autoctoni. È necessario allearsi con i movimenti di contadini e consumatori critici che costruiscono un’economia solidale e sostenibile e che sono stati sensibili alle condizioni di vita e di lavoro dei migranti.

Insomma, è necessario reagire al decreto sicurezza, al razzismo che cresce nella società italiana e che viene alimentato ad arte da molti rappresentanti del governo e della maggioranza in parlamento, non rivendicando un impossibile (e, probabilmente, inutile e dannoso) ritorno al sistema di accoglienza che abbiamo conosciuto tra il 2011 e il 2018, ma rinnovando e ripensando da cima a fondo le pratiche di “accoglienza”, costruendo collaborazioni con le associazioni di migranti e con i movimenti e ragionando su quali politiche vogliamo rivendicare e sostenere, partendo da queste pratiche e da queste collaborazioni.

Mimmo Perrotta e Savino Claudio Reggente

Mimmo Perrotta (mimmo.perrotta@gmail.com) è ricercatore di Sociologia presso l’Università di Bergamo. I suoi studi si sono concentrati sul rapporto tra migrazioni e lavoro (soprattutto inriferimento ai settori dell’edilizia e dell’agricoltura), e sulle trasformazioni nella produzione e distribuzione del cibo in Italia. È tra gli animatori della rivista "Gli asini". Savino Claudio Reggente (savio.claudio.reg@gmail.com) ha incontrato il mondo dell’immigrazione sui campi di pomodoro prima che nei campi dell'accoglienza. Lavora a Bologna come operatore Sprar da oltre quattro anni. Collabora all'ideazione delle "Strade del mondo" e scrive anche lui sulla rivista "Gli asini".

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