Al momento stai visualizzando Archiviare il presente: l’auto-narrazione dei migranti come fonte
illustrazione di Blutch

Il testo che segue, messo a disposizione degli iscritti alle Strade del mondo 2020, fa parte di una miscellanea in corso di pubblicazione: Daniele Salerno e Patrizia Violi (a cura di), Stranieri nel ricordo. Verso una memoria pubblica delle migrazioni, il Mulino.

come descrivere? come raccontare? come guardare?
(…)come riconoscere questo luogo?
restituire ciò che fu? come leggere queste tracce? come andare al di là
andare dietro non fermarci a quel che ci è dato di vedere non vedere soltanto ciò che si sapeva già
prima che si sarebbe visto?
Georges Perec[i]

Da alcuni anni lavoro insieme a un gruppo di volontari, ricercatori ed educatori intorno a un progetto di archivio di memorie di migranti e richiedenti asilo volto a raccogliere, conservare e diffondere racconti e testimonianze di rifugiati arrivati in Italia inizialmente dal Corno d’Africa ma poi dai quattro lati del mondo. Scopo fondante del progetto è lasciare traccia di una pagina straniata e convulsa di storia contemporanea[ii] stimolando spazi di condivisione e di ascolto delle voci narranti dei diretti interessati e un apparato documentario di fonti audio e video pensate, raccolte e prodotte insieme a loro. Seguendo l’indicazione di Abdelmalek Sayad che considera immigrazione ed emigrazione come «due facce della stessa medaglia» [Sayad 1999, xii], il progetto ha inteso ricostruire fin dall’inizio la complessità del percorso migratorio «nella sua interezza», e collegare pertanto il qui e il dell’odierno peregrinare dell’umanità insieme alle fonti narrative in grado di raccontarlo e, in qualche modo, di rappresentarlo[iii].

Non è il primo «sconfinamento» che devo registrare nel mio lavoro di etnostorico a lungo impegnato in ricerche tra popolazioni di frontiera lungo il confine meridionale tra Sudan e Etiopia e nell’individuazione di fonti capaci di riflettere la porosità e gli accavallamenti di identità tipiche di ogni zona di confine [si veda Triulzi 1981; Triulzi 2006; Triulzi e Ta’a 2004]. Chi ha svolto ricerche nei territori dell’alterità e dell’altrove sa bene quanto sia importante saper «migrare» tra discipline, saperi e confini mobili, costretto dalla natura stessa delle fonti reperibili sul terreno a costruire di volta in volta corpora ibridi di conoscenze (nel mio caso, testimonianze audio e video, auto-narrazioni, diari multimediali, scritture) per lo più ignorate o rimosse – come le genti che le producono – dal Grande Racconto auto-legittimante dello Stato e dei media ufficiali [si veda  Chelati Dirar et al. 2011, 269-366]. Non diverse, da un punto di vista metodologico, paiono a me le difficoltà e le sfide per lo storico che intenda contribuire a una maggiore consapevolezza della complessità dei movimenti migratori attraverso un lavoro di codifica e significazione delle fonti auto-narranti dei diretti interessati nel doppio tentativo di dare legittimità e autonomia alla loro voce e di lasciare traccia documentale del presente mobile e contrastato in cui viviamo.

Ricostruire il percorso di formazione di un archivio di memorie e di testimonianze basato sulle voci dei principali soggetti e attori della migrazione vuole cercare di restituire in forma scritta un percorso di ricerca più che un risultato acquisito, un work-in-progress intorno a un’idea di archivio volto al futuro più che un deposito di fonti consolidate e immediatamente accessibili[iv]. Lavorare intorno a quest’idea è stato per tutti noi prassi educativa e insieme accoglienza, è stato anche testimoniare e permettere che si faccia testimonianza, e concorrere alla formazione di un diritto di parola e al suo riconoscimento collettivo all’interno di un paese, l’Italia, che ha accolto corpi ma non ancora voci, soggettività e persone nella loro umanità complessiva [Agamben 1995; Foucault 1966].

Il progetto di archivio sulle fonti narrative dei migranti

Il progetto di archivio delle memorie migranti (www.archiviomemoriemigranti.net – da qui indicato come Archivio o come AMM) nasce inizialmente come deposito (repository) di storie, narrazioni e testimonianze raccolte all’interno di una Scuola di italiano per stranieri con cui un gruppo di volontari e ricercatori aveva iniziato a collaborare per affiancare una sperimentazione terapeutica sul trauma post-migratorio in collaborazione con l’ONG Medici contro la Tortura. La raccolta di storie e narrazioni per ricostruire identità e memorie di migranti sopravvissuti alle violenze dell’esodo forzato inizia a prendere forma nel 2004 tra gli occupanti stranieri dei Magazzini di Tiburtina, un ampio spazio allora presidiato da alcune centinaia di richiedenti asilo e rifugiati politici provenienti dal Darfur e dalle regioni del Corno d’Africa, poi sgombrato con la forza dal Comune di Roma nel 2005[v]. È qui, tra i vestiti, le foto e i documenti rasi al suolo dalle ruspe insieme a quello che restava della prima comunità spontanea di accoglienza per migranti di Roma, allora denominata «Hotel Africa», che è nata nel gruppo l’idea di conservare le tracce, le narrazioni e le testimonianze di viaggio e dell’arrivo per registrare l’«enigma dell’arrivo» [Naipaul 1987] e la tortuosa accoglienza riservata agli «ospiti» stranieri di Tiburtina [Triulzi 2013]. A Tiburtina, e poi nella scuola di italiano Asinitas di via Ostiense a Roma fondata sui lasciti di questa esperienza (www.asinitas.org), le storie dei migranti espresse in modo incerto e con le poche parole di italiano conosciute venivano usate in attività didattiche come tracce di memoria, e di riconoscimento, della propria identità culturale e allo stesso tempo di miglioramento della conoscenza dell’italiano da parte degli stranieri migranti residenti a Roma.

Il lavoro presso la Scuola di via Ostiense dà inizio alla prima fase dell’Archivio portato avanti insieme agli operatori didattici di Asinitas con cui vengono condivisi gli anni di formazione (2005- 2011) dell’Archivio e la prima sperimentazione di progetti di raccolta e diffusione di testimonianze e narrazioni audiovisive. Lo scopo era quello di contrastare lo spaesamento dei migranti nelle comunità di residenza rispetto alla lingua, alla cultura e ai codici culturali delle comunità di origine, facilitando il collegamento con entrambe, nel tentativo di colmare la «doppia assenza» [Sayad 1999] tipica dell’emigrato-immigrato nella società contemporanea. Attraverso la parola e la partecipazione attiva dei migranti alla produzione narrativa audio e video e alla creazione di contesti di ascolto partecipato, si voleva facilitare l’emersione di esperienze traumatiche, in qualche modo «indicibili», e trasformarle in materiali di ascolto e di resilienza intorno alla parola narrata dagli stessi interlocutori e interpreti dell’evento migratorio.

Tale lavoro è stato fondamentale per i volontari e i ricercatori non meno che per gli studenti migranti dei corsi di italiano alcuni dei quali sono poi diventati mediatori culturali e della comunicazione all’Archivio[vi]. La Scuola di via Ostiense, terreno di raccolta e allo stesso tempo laboratorio di esperienze di formazione e ricerca, era allora frequentata da migranti e richiedenti asilo provenienti dalle regioni del Corno d’Africa martoriate da conflitti intestini mescolati a povertà e autoritarismo, e ospitava principalmente rifugiati dall’Eritrea, Somalia, Etiopia e dal Darfur sudanese arrivati da poco in Italia. Fin dall’inizio l’insegnamento della lingua italiana era fortemente intessuto con le tracce di memoria che si voleva conservare:

A scuola – scrive Marco Carsetti, il ‘maestro’ di Via Ostiense – le lezioni seguono le ‘tracce’ degli studenti. Si fa lezione raccogliendo e soffermandosi su ciascuna parola che più o meno stentatamente e imprevedibilmente loro pronunciano. All’inizio la partecipazione degli studenti alle lezioni d’italiano sono parole senza sintassi, intenzioni di discorso, abbozzi di frase, pensieri incompleti. Le parole evocano però interi discorsi, producono linguaggi. È da lì che si parte. È così che abbiamo cominciato a costruire con loro un discorso a partire da parole spesso ascoltate ma ancora non del tutto comprensibili. Un giorno a scuola un ragazzo disegnò, per aiutare l’espressione in italiano di un suo compagno, una gazzella. Quindi quel giorno nacque la parola gazzella. L’altra parola spesso ripetuta dagli studenti sudanesi era ‘Tiburtina’, ma ci volle ancora un po’ di tempo perché gazzella e Tiburtina diventassero un discorso [Triulzi e Carsetti 2007,108].

Il lavoro della scuola consisteva proprio in questo: dare spazio autonomo alle voci narranti dei diretti interessati nella necessaria ricostruzione/ricomposizione delle loro identità dopo lo spaesamento dell’arrivo. Al termine di ogni anno, i materiali raccolti diventavano libro di letture per gli studenti-migranti e forma di auto-riconoscimento per la comunità mista di studenti, volontari e ricercatori. I libretti contenenti le testimonianze vive, i prodotti artigianali e i disegni degli studenti segnavano il progressivo avanzamento nelle pratiche di educazione attiva e costituivano la prima raccolta di materiali di archivio che univa produzioni audiovisive e laboratori informatici sui temi della migrazione (www.asinitas.org/produzioni/). Facevano parte di questi percorsi nuove aggregazioni di saperi e pratiche di interscambio culturale che, con il sostegno di alcune fondazioni, soprattutto lettera27 e Open Society, si concretizzarono in progetti formativi di più ampio respiro: cerchi narrativi con ragazzi migranti realizzati in collaborazione con le scrittrici di origine somala Cristina Ali Farah e Igiaba Scego [Triulzi 2009; Carsetti 2009; Scego 2009]; elaborazioni plastiche dei luoghi della migrazione miste a memorie di arrivo e di transito, come nella Mostra-Convegno Geografie extra-vaganti allestita nel giugno 2010 presso la Città dell’altra economia a Roma [Borella, Carsetti e Mammarella 2010]. In questo periodo si dà avvio contemporaneamente alla produzione dei primi «video partecipativi» (Il deserto e il mare, 2007; Come un uomo sulla terra, 2009; C.A.R.A. Italia, 2010; Una scuola italiana, 2011) che, condotti insieme a registi italiani e migranti, hanno tracciato il solco futuro di AMM come produttore e non solo raccoglitore di fonti audiovisive.

I primi video di AMM, così come la raccolta di storie di viaggio e di racconti di sé, erano il risultato di una scelta precisa di partecipazione dei soggetti migranti in una presa di parola che si voleva incoraggiare e sostenere. Si trattava di unire competenze registiche e apparecchiature professionali accanto al racconto di sé dell’immigrato in una condivisione di ascolto partecipato. Nascono così in parallelo, dentro la Scuola di via Ostiense, pratiche didattiche e forme di auto- narrazione che si concretizzano nei corti di lavoro Equilibrio, Buongiorno, L’albero, e Viaggio di non ritorno, quattro brevi video diretti dal regista rifugiato etiopico Dagmawi Yimer nel 2009 con il coordinamento di Giulio Cederna e Angelo Loy, due registi-comunicatori che avevano alle spalle una ricca esperienza di lavoro con ragazzi di strada nelle periferie urbane del Kenya [Cederna e Muruiri 2005][vii].

Il consolidamento delle attività di AMM

Il 2012 apre la seconda fase dell’Archivio trasformato in associazione autonoma, produttrice e raccoglitrice di memorie e testimonianze audiovisive sulla migrazione, in stretta collaborazione con gli operatori di storia orale del Circolo Gianni Bosio presso la Casa della Memoria e della Storia del Comune di Roma. In questo periodo si annodano collaborazioni fruttuose da un lato con istituti e biblioteche romane (in particolare con l’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi) dando avvio a un fondo (FRMM-Fondo rete memorie migranti) teso a testimoniare nel luogo deputato alla conservazione della memoria nazionale la memoria orale e visiva della migrazione (http://polodds.dds.it/result.php), dall’altro con le organizzazioni della società civile attive sul territorio a Napoli e Roma per avviare percorsi comuni in ambito interculturale. In questa fase l’Archivio aderisce al progetto di condivisione delle fonti coloniali Returning and Sharing Memories avviato da Paolo Bertella Farnetti presso l’Università di Modena e Reggio Emilia facendosi portatore presso altri Atenei e istituzioni culturali (Università di Napoli «L’Orientale», Università di RomaTre, Istituto Luce) dell’apertura di un portale sulle fonti coloniali da condividere con gli studenti e gli studiosi dei paesi già sotto amministrazione italiana (http://www.memoriecoloniali.org/).

Rientra in questa fase la produzione di documentari e video partecipativi (PV) che, sulla scia dell’antropologia condivisa di Jean Rouch [Grisolia 1988], pongono in essere pratiche e forme dell’“atto di rappresentazione” non solo spostando l’accento dal prodotto al processo ma insistendo sulla piena promozione di autorialità della regia migrante, dalla scelta dei soggetti alla effettiva esecuzione dei lavori [Moraldi 2013, 221-226]. Negli anni 2011-2013 l’Archivio, produce alcuni film documentari diretti o co-diretti da registi migranti: Soltanto il mare (2011) sugli abitanti di Lampedusa visti attraverso la cinepresa di un migrante etiope sbarcato alcuni anni prima; Benvenuti in Italia (2012), un docu-film in cinque episodi girati da autori provenienti da Afghanistan, Burkina Faso, Etiopia, Kurdistan e Somalia; e Va’ Pensiero. Storie ambulanti (2013), in cui il regista etiopico, Dagmawi Yimer, registra i racconti delle vittime di due attacchi razzisti contro migranti africani avvenuti in Italia, a Milano (2009) e a Firenze (2011)[viii]. Il progetto del film Va’ pensiero. Storie ambulanti, vincitore del premio Mutti per registi stranieri residenti in Italia nel 2011, darà il via l’anno seguente a una stretta collaborazione dell’Archivio con il Premio Mutti (da allora denominato Premio Mutti-AMM), il primo e unico premio in Italia dedicato al cinema migrante, organizzato in collaborazione con la Cineteca di Bologna e altri partner locali e nazionali (www.cinetecadibologna.it/studiare/premio_mutti_amm).

In questo periodo sono le attività audiovisive a predominare nella raccolta di auto-narrazioni dell’Archivio. I film di AMM si caratterizzano principalmente per la tendenza a rappresentare l’alterità attraverso l’auto-narrazione e a recepire lo sguardo dell’altro interno alla società italiana. Sono film di denuncia ma anche di riflessione, a volte drammatica, a volte ironica, su realtà a contatto (e non solo a contrasto) nella vita quotidiana, a scuola, per strada, nei luoghi di frequenza dei migranti, i mercati, i centri di accoglienza e quelli di espulsione. Alla base c’è un racconto per immagini non solo dei e sui migranti e richiedenti asilo ma sull’Italia che cambia vista attraverso gli occhi degli «stranieri tra noi», e sulle pratiche di accoglienza, o di rigetto, del Paese nel suo complesso. Il film che ha dato inizio all’auto-narrazione dei migranti, e che ha portato il regista rifugiato dall’Etiopia Dagmawi Yimer a farsi portavoce dell’Archivio e dei suoi metodi, è stato Come un uomo sulla terra, un film co-diretto insieme a Andrea Segre e Riccardo Biadene nel 2008. Il film racconta attraverso la voce di alcuni testimoni-compagni di viaggio del regista etiopico, il «viaggio impossibile del migrante» attraverso il Sahara e il Mediterraneo, lungo cioè la famigerata «strada L-L» (Libia-Lampedusa) già allora percorso obbligato dei migranti subsahariani verso l’Italia. Nel film, è il regista etiopico Dagmawi Yimer che si vede «interagire con i soggetti, fare da “mediatore interno”, da “guida” nella comunità dei rifugiati; inoltre, è la sua voce fuori campo che introduce all’incontro con i migranti e guida lo sviluppo del film, come a sottolineare la necessità di dare valore testimoniale alle immagini» [Moraldi 2013, 232]. Così il film stesso diventa fonte di memoria e di testimonianza, ma anche moltiplicazione di voci e di sguardi sulla migrazione e sulla società che la ospita.

Fanno parte della produzione di questi docu-film, il corto To whom it may concern (2012), un documentario del giornalista somalo Zakaria Mohamed Ali, sbarcato a Lampedusa nel 2008, che ritorna sull’isola quattro anni dopo alla ricerca delle foto e dei documenti che gli sono stati portati via al momento dell’arrivo insieme al suo nome e alla sua identità[ix], e Grooving Lampedusa (Badagliacca 2013), un foto-racconto per immagini di Mohammad Aman, oggi mediatore culturale di Save the Children a Agrigento, che presenta il suo personale «ritorno» a Lampedusa da uomo libero nell’estate del 2012[x]. Negli anni 2015-2017, altri video partecipativi vengono co-prodotti da AMM in collaborazione con video maker e associazioni militanti per sollecitare iniziative pubbliche di memoria a favore dei migranti, per dare voce a richiedenti asilo in sperduti angoli del paese[xi], o mostrarne le tracce materiali come nella mostra-convegno Oggetti migranti. Dalla traccia alla voce tenuto presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università di Roma «La Sapienza» nei mesi di marzo-aprile 2017[xii].

Dal 2017, infine, AMM collabora strettamente con l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano (archiviodiari.org) fondato da Saverio Tutino nel 1984 per riunire in un’unica sede le circa 8000 scritture autobiografiche elaborate in Italia, intorno a un progetto di raccolta di diari multimediali migranti (DiMMi) aperto alle lingue straniere e diffuso nelle scuole e nei centri di accoglienza della Regione Toscana. Il concorso DiMMi[xiii] nel 2017 ha visto affluire negli archivi di Pieve Santo Stefano 99 scritture diaristiche elaborate in italiano, francese, inglese, arabo, e farsi (persiano) mostrando l’urgenza di far valicare le scritture di sé oltre i confini linguistici e territoriali del progetto regionale per portarle in ambito nazionale ed europeo[xiv].

L’esperienza sul terreno: ostacoli, metodi, obiettivi

Misurare la validità di un lavoro partecipato di ricerca-azione sulle voci migranti, e calibrarne i metodi impiegati con gli obiettivi raggiunti, vuol dire interrogarsi sui limiti di un lavoro di condivisione sul terreno, e più in generale di un’azione di ricerca il cui fine non è solo approfondire la conoscenza di un fenomeno socio-culturale ma di ribaltarne lo sguardo e le modalità di rappresentazione. Nell’attuale contesto di «controllo» – in realtà di rigetto – di legittimità rivolto ai flussi migratori diretti verso l’Europa, interrogarsi criticamente sulla validità di una raccolta di fonti basate sull’auto-narrazione vuol dire confrontarsi in primo luogo sul loro statuto ibrido di voci soggettive eppure dirimenti – in quanto «testimoniali» – nel rappresentare la realtà di chi è in fuga dalla propria casa e paese, e sui necessari e faticosi coinvolgimenti umani e professionali del ricercatore impegnato sul difficile fronte dell’equidistanza tra professionalità e impegno sociale – «non ha senso intraprendere degli studi sui rifugiati senza fare nulla per loro» ammoniva spesso Barbara Harrell-Bond, fondatrice dei Refugee Studies di Oxford[xv]. Confesso che mi sono sentito  più volte disarmato e indifeso di fronte alla mia (im)preparazione in quanto storico africanista e al potenziale spaesamento che lavorare in mezzo ai migranti a casa propria richiede agli studiosi non meno che agli operatori, a partire dalla propria (privilegiata) alterità chiamata in causa e in qualche modo rispecchiata, e capovolta, dall’oggetto stesso di indagine. Qui infatti lo spaesamento è reciproco e cumulativo, e non c’è «tenda» o riparo simbolico alla Malinowski[xvi] che ripari l’osservatore dagli sguardi e dalle richieste di chi è osservato e ne sciolga le straniate strutture di comunicazione. Tale spaesamento riguarda sia l’osservatore (volontari o studiosi) che normalmente non vivono «in mezzo» ai migranti ma possono solo visitare i luoghi artificiali che loro abitano (il centro di accoglienza, lo stabile occupato, la struttura di sostegno durante le stagioni dei raccolti. ecc.), sia l’osservato (i migranti) che non hanno «casa» nelle nostre città, ma solo luoghi di sosta, di identificazione, di trattenimento, di prigionia, o di sorveglianza; noi la sera possiamo ritornare a casa, loro no: sono migranti anche del, e nel quotidiano, sempre in moto, sempre a inseguire qualcosa o a essere inseguiti da qualcuno.

La difficoltà di creare un contesto di ascolto condiviso è forse l’ostacolo maggiore nel lavoro di raccolta e co-produzione di fonti auto-narranti sulla migrazione. La «doppia asimmetria» denunciata da Pierre Bourdieu mentre raccoglieva dati nei quartieri indigeni dell’Algeri coloniale agli inizi della guerra di liberazione [Bourdieu 2003] o negli arrondissement periferici congestionati della Parigi degli anni Ottanta [Bourdieu 1993] è qui accentuata, non diminuita, nell’indagine condotta tra e con i «nativi tra noi» in quanto i migranti di oggi vengono tuttora percepiti nell’immaginario collettivo non meno estranei, primitivi e antimoderni dei fellahin algerini in lotta di ieri o dei contadini francesi inurbati delle periferie timorosi di perdere le identità e sicurezze raggiunte negli anni Settanta. Per un immigrato irregolare di qualunque città italiana, oggi, prendere un autobus, aspettare in fila davanti a un luogo pubblico, fare la spesa in un negozio o un supermercato, o richiedere i servizi di una struttura pubblica, vuol dire essere continuamente circondato da occhi distratti, indifferenti o malevoli che lo fanno sentire estraneo fin dentro le ossa, impaurito, spaesato, insicuro, una persona «senza luogo-senza casa-senza lavoro» che brucia la propria «umanità in eccesso» in «zone definitivamente temporanee» della società contemporanea [Rahola 2003]. Molti soccombono – nell’alcool, nella depressione, nel rinchiudersi in se stessi, nella violenza contro di sé e gli altri (spesso contro le donne), nel convertirsi a religioni «di salvezza», nel privarsi della vita o nel rinunciare alla comunicazione con il mondo esterno. Di qui la difficoltà di dare continuità e solidità a progetti di storytelling condivisi con le istituzioni e i migranti: molti progetti  dell’Archivio sono stati più volte interrotti o rimandati, le fonti di finanziamento iniziali (Monte dei Paschi di Siena, lettera27) si sono inaridite, diversi migranti coinvolti e determinati all’inizio hanno poi interrotto la collaborazione con l’Archivio per motivi di lavoro o per sopraggiunti nuovi impegni, interessi, partenze.

La corrente discriminazione verso ogni forma di immigrazione in tutta Europa, e il clima di scontro ideologico che ha accompagnato in Italia la definitiva esclusione dei figli degli stranieri residenti in Italia dalla cittadinanza prevista dalla legge sullo jus soli[xvii] non facilita la raccolta e la condivisione dei racconti diretti dei migranti, essendone minato alla base il contesto politico e culturale di riferimento[xviii]. Negli ultimi anni, i forti flussi migratori nel Mediterraneo hanno portato l’Europa e più in generale l’Occidente a chiudersi in cittadelle fortificate protette da muri, barriere e norme repressive che hanno fortemente limitato il passaggio e l’accoglienza di stranieri migranti sul territorio nazionale rendendo particolarmente difficile lo svelamento, e pertanto l’ascolto condiviso, delle loro identità e memorie. Sospetti reciproci, il timore da parte dei migranti di rivelare origini, motivazioni e soggettività infrante, unite alle ansie identitarie della nuova Europa e alle memorie rimosse di passati di emigrazione e di espansione coloniale negli stessi territori di partenza dei nuovi arrivati, hanno minato nelle nostre società non solo i diritti umani e civili ma la stessa capacità e volontà di testimonianza. Ne è derivata una difficoltà di parola e di ascolto in molti contesti di arrivo e di accoglienza, e una crescente incredulità/ostilità sulle reali ragioni dei nuovi erranti, e sulle possibilità di dare accoglienza alle loro voci e di condividerne gli immaginari. Ciò ha aumentato da un lato l’urgenza dei ricercatori di «registrare il disastro» – così come aveva fatto Bourdieu [2012, 82] alla vigilia del conflitto franco-algerino degli anni cinquanta – in un’Europa che si percepisce sempre più «sotto assedio» per la cosiddetta «invasione» dei migranti, dall’altro ha influenzato la percezione del livello di credibilità dei loro racconti tanto da inficiarne il valore di testimonianza. Così la voce dei migranti – troppo soggettiva, troppo parziale, troppo connotata – è spesso sminuita o negata come fonte di testimonianza e di diritti.

È in questo clima che le prime raccolte dell’archivio si sono svolte in spazi di narrazione contenuti, come quello offerto dalla Scuola d’italiano di via Ostiense, accanto e in parallelo a contesti di ascolto più accidentati come nei CIE – i Centri di identificazione e di espulsione creati dal Governo Berlusconi nel 2008 – e intorno alle zone di arrivo o di sbarco dei migranti a Tiburtina o a Lampedusa[xix]. Ci si è chiesti quanta verità e quanta finzione si possa nascondere dietro narrative formali redatte da un migrante africano con l’obiettivo di ottenere la protezione internazionale da un governo occidentale, e se le testimonianze di richiedenti asilo sulle loro scelte migratorie o sulle violenze subite, così come l’indicazione dei paesi di origine, le cause di espatrio o le rappresentazioni identitarie, non siano dettate più spesso da ragioni di sopravvivenza che dall’esigenza di condividere o socializzare una storia di vita. Le «dichiarazioni integrative» che accompagnano le richieste di asilo sono perlopiù finalizzate alla ricerca di obiettivi pratici – un visto di ingresso, un permesso «umanitario», lo status di rifugiato politico – e non riflettono necessariamente l’esperienza realmente vissuta dai singoli.

Per questa ragione all’Archivio abbiamo sempre privilegiato forme di narrazione il più possibile sganciate dalle memorie integrative redatte ai fini della richiesta di asilo. A questo fine abbiamo incentivato narrazioni e incontri svolti in luoghi a sé, «cerchi narrativi» a più voci, interviste lunghe, e forme di auto-narrazione spontanee basate su disegni, musiche e immagini tratte dai cellulari come fonti capaci di trasmettere momenti di intimità e di relax, i sogni e i desideri più complessivi di chi lascia casa e attraversa i confini dell’umano, ritenendo questi momenti privati altrettanto importanti della narrazione delle violenze ricevute o assistite nei luoghi di transito o di arrivo[xx]. Abbiamo così cercato di dare spazio libero a riflessioni e ricordi privati che non fossero vincolati a partenze forzate o a vessazioni subite. Il risultato è stato non meno ricco di racconti e testimonianze esperite, di descrizione di incontri/scontri tra culture e lingue a contatto, e di momenti di auto- riflessione rispetto agli eventi narrati. D’altra parte, e non da oggi, le «memorie integrative» che i migranti scrivono per reclamare il diritto di asilo, così come le «contro-memorie» che le Commissioni territoriali redigono per rifiutarlo o concederlo, sono viste entrambe come «esercizi di retorica» espressi nelle formule tipiche dei codici delle burocrazie statali, del realismo magico, e della fiction relativa all’opzione-uscita – una fiction che gli studiosi, non solo in Italia [Ranger 2005; Gatrell 2013], hanno messo da tempo in discussione.

Così, raccogliere le voci del silenzio e della paura, del dolore o della vergogna (i migranti che arrivano attraversando il deserto e il mare in condizioni di sopravvivenza e di sottomissione sono tutti in qualche modo marchiati come i sommersi e i salvati di Primo Levi [1986]) senza rimuovere o acutizzare il trauma iniziale ma farne oggetto di narrazione e di auto-riflessione solleva problemi etici, storiografici e metodologici che caratterizzano ogni testimonianza da trauma nella nostra epoca, l’era del testimone [Wieviorka 1998]. Come già nella registrazione di momenti istituzionali di processi alla violenza di Stato e alla memoria collettiva di questa violenza (come i tribunali di Norimberga, la TRC-Truth and Reconciliation Commission in Sudafrica, o la Corte Penale Internazionale di Arusha per il genocidio in Rwanda), ci si è chiesti, ad esempio, come si registra il silenzio, i movimenti del corpo, il sottotesto non verbalizzato, il groppo in gola di una vittima o di un perpetratore di violenza? E, più vicino a noi, come si registra l’anonimato, come si protegge chi è in fuga da governi e strumenti di esclusione nel suo e nel nostro paese, come si devono interpretare i silenzi dei racconti, le loro pause, i non detti? Nelle parole di uno dei «trascrittori» delle violenze narrate durante le lunghe sessioni della TRC in Sudafrica:

Sono stato ostaggio della Commissione, L’anonimo scriba degli straordinari, Tabula rasa professionale.
Parola per parola per parola
Dal nastro che girava al tasto cifrato, Da segno a segno, ascoltavo e scrivevo. (…)
Parola su parola su parola. Dapprima senza punteggiatura Tranne che virgolette e punti.
Ma come si trascrive il silenzio del nastro? Il pianto è una pausa o una parola?
Quale segno scritto sta per una gola strozzata? [De Kok 2008, 85]

Sono solo alcuni esempi dei molti ostacoli che hanno accompagnato il lavoro dell’Archivio nei suoi dieci anni di vita, e che oggi ritornano come necessità di approfondimento e auto-riflessione dei ricercatori nei loro processi di avvicinamento e di condivisione di conoscenze e di narrazioni silenziose o rimosse dei nuovi «dannati della terra» [Fanon 1961] le cui parole e segni (e forse anche silenzi) occorre preservare per il futuro. Questi ultimi richiedono non solo diritti e cittadinanza, ma ci chiedono di dare cittadinanza alle loro storie e testimonianze plurime e soggettive, perché i loro racconti costruiscono una storia lunga e densa dell’emigrazione, della diaspora, e dell’esilio non solo lungo le coste del Mediterraneo (Matvejevich [1987]) ma all’interno stesso delle società europee sempre più attraversate dalla crescente mobilità di corpi e pluralità di voci della società contemporanea.

Ascoltare voci mobili del presente migratorio e cercare di lasciare traccia dei loro destini e condizionamenti è un lavoro defatigante e impegnativo. Lo storico contemporaneo si trova di fronte a sfide e opportunità che occorre oggi saper raccogliere e trasformare in reti di consapevolezza per il presente, e in tracce di conoscenza e di documentazione per il futuro. Su questo lavoro di riflessione e costruzione di senso nell’individuare, conservare, e curare fonti documentarie da rintracciare sul terreno ruvido e scivoloso della mobilità umana ogni studioso del contemporaneo deve riflettere attentamente sui propri limiti e quelli della propria disciplina se non si vuole riprodurre una storiografia sulla migrazione esterna al fenomeno stesso, incapace di rispondere alle domande che essa stessa pone e reclama.

Saranno proprio le nuove domande che sapremo formulare intorno a queste vischiose tracce di conoscenza e di consapevolezza della nostra contemporaneità, e alla nostra capacità di adesione o di estraneità al complesso mutare della condizione umana, che permetteranno domani una lettura forse meno ostativa dei percorsi individuali e collettivi che attraversano e sfidano oggi l’economia morale della nostra generazione. Come ebbe a scrivere Carlo Levi di ritorno dall’esilio forzato a lui imposto dal Fascismo negli anni trenta, la sua sola fortuna fu di essere (per età, per formazione, per carattere, per impossibilità di accettare un mondo negativo) così libero dal proprio tempo, così da essere esiliato, da poter essere veramente un contemporaneo: e non soltanto un contemporaneo della contemporaneità illimitata, ma nei fatti, un contemporaneo degli uomini nuovi, dei piccoli, degli oscuri con cui ebbe la ventura di vivere e di formarsi e conoscersi. [C. Levi 1958, xviii-xix]

Bibliografia

Agamben, G. [1995], Homo Sacer, Torino, Einaudi.

Archivio diaristico nazionale, Parole oltre le frontiere. Dieci storie migranti (a cura di A: Triulzi, N. Cangi, P. Di Luca), Milano, Terre di Mezzo, 2018.

Badagliacca, M. [2013], Grooving Lampedusa. Un foto-racconto,                     www.archiviomemoriemigranti.net/film/produzioni-amm/grooving-lampedusa/ [consultato 14 marzo 2019]

Bourdieu, P. [1993], La misère du monde, Paris, Éditions du Seuil; trad. it. La miseria del mondo, Milano, Mimesis, 2015.

Bourdieu, P. [2003], Images d’Algérie, une affinité élective, Catalogue de l’Exposition, Institut du Monde Arabe, 23 janvier-2 mars 2003, Paris, Actes Sud; trad. it. In Algeria. Immagini dello            sradicamento, a cura di F. Schultheis, C. Frisinghelli e A. Rapini, Roma, Carocci, 2012.

Borella G., Carsetti M. e Mammarella, C. [2010] (a cura di), Geografie extravaganti. Luoghi e percorsi della migrazione, Roma, Asinitas.

Carsetti, M. [2009], Il tempo dell’arrivo, in «Lo straniero», XI, 107, pp. 32-37.

Cederna, G. e Muruiri, J. [2005], The Black Pinocchio. Avventure di un ragazzo di strada, con DVD, Roma-Firenze, Amref-Giunti.

Chelati Dirar, U. et al. (a cura di) [2011], Colonia e postcolonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa, Roma, Carocci.

De Kok, I. [2002], Terrestrial Things, Cape Town, Kwela; trad. it. Mappe del corpo, Roma, Donzelli, 2008.

Di Cesare, D. [2017], Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Torino, Bollati Boringhieri. Fanon, F. [1961], Les damnés de la terre, Paris, Éditions Maspero ; trad. it. I dannati della terra, Torino, Einaudi, 2007.

Foucault, M. [1966], Les mots et les choses. Una archéologie des sciences humaines, Paris, Gallimard; trad. it., Le parole e le cose. Una archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1967.

Gatrell, P. [2013], The Making of the Modern Refugee, Oxford, Oxford University Press. Gatta, G. [2010], Luoghi migranti tra clandestinità e spazi pubblici, Cosenza, Pellegrini.

Gatta, G. e Muzzopappa, G. [2012], Middle Passages. Musealizzazione e soggettività a Bristol e Lampedusa, in «Estetica. Studi e ricerche », 1, pp. 167-181.

Geertz, C. [1973], The Interpretation of Cultures. Selected Essays, New York, Basic Books, Inc.; trad. it., Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1998.

Glissant, E. [2007], Poétique de la relation (Poétique III), Paris, Gallimard; trad. it. Poetica della relazione, Macerata, Quodlibet, 2005.

Grisolia, R. [1988], Jean Rouch e il cinema del contatto, Roma, Bulzoni.

Levi, C. [1958], Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi.

Levi, P. [1986], I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.

Malinovski, B. [1967], A Diary in the Strict Sense of the Term, Harcourt, Brace & World, New York; trad. it. Giornale di un antropologo, Roma, Armando,1992.

Matvejevic, P. [1987], Mediteranski brevijar, Zaghreb, GZH; trad. it. Breviario mediterraneo, Milano, Garzanti, 2006.

Mazzara, F. (a cura di) [2016], Lampedusa: Cultural and Artistic Spaces for Migrant Voices, special issue, «Crossings: Journal of Migration and Culture», 7, n. 2.

Moraldi, S. [2013], Decolonizzazione, de-gerarchizzazione, condivisione. Pratiche e forme di video partecipativo in Italia tra etnografia e partecipazione, in L. De Franceschi (a cura   di), L’Africa in Italia. Per una controstoria postcoloniale del cinema italiano, Roma,   Aracne, pp. 221-236.

Naipaul, V.S. [1987], The Enigma of Arrival, London, Viking Press; trad. it. L’enigma dell’arrivo, Milano, Mondadori, 1988.

Perec, G. e Bober, R. [1995], Ellis Island, histoires d’errance et d’espoir, Paris, P.O.L. Ed. ; trad. it.   Ellis Island. Storie di erranza e di speranza, Milano, Archinto, 2017.

Rahola, F. [2003], Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Verona, Ombre corte.

Ranger, T. [2005], The Narratives and Counter-Narratives of Zimbabwean Asylum: Female Voices, «Third World Quarterly», 26, n. 3, pp. 405-421.

Regazzoni, L. [2019], Schriftlose Vergangenheiten. Die Geschichtsschreibung an ihrer Grenze – von der Frühen Neuzeit bis in die Gegenwart, Berlin, De Gruyter.

Sayad, A. [1999], La double absence, Paris, Seuil; trad. it. La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina, 2002.

Scego, I. [2009], Ascoltare, «Lo Straniero», XIII, n. 107, pp. 38-42.

Segre, A. [2009], La distribuzione civile e le testimonianze di base, in M. Carsetti e A. Triulzi (a cura di), Come un uomo sulla terra (Dvd + libro), Castel Gandolfo, Infinito, pp. 119-126.

Soulet, J.F. [2012], L’histoire immédiate. Historiographie, sources et méthodes, Paris, Armand Colin.

Triulzi, A. [1981], Salt, Gold and Legitimacy. Prelude to the History of a No-Man’s Land: Bela Shangul, Wallagga, Ethiopia (ca. 1800-1898), Napoli, Seminario di Studi Africani, Istituto Universitario Orientale.

Triulzi, A. e Ta’a, T. (a cura di) [2004 (1996 calendario etiopico)], Documents for Wallaga History (1880s-1920s E.C.), vol. I: Amharic Texts, Dip. di studi e ricerche su Africa e Paesi Arabi, Università di Napoli «L’Orientale» – Dep. of History, Addis Ababa University, Addis Ababa, Addis Ababa University Press.

Triulzi, A. [2006], The Past as a Contested Territory: Commemorating New Sites of Memory in War- Torn Ethiopia, in P. Kaarsholm (a cura di), Violence, Political Culture and Development in Africa, Oxford, James Currey, pp. 122-138.

Triulzi, A. e Carsetti, M. [2007], Ascoltare voci migranti: riflessioni intorno alle memorie di rifugiati dal Corno d’Africa, «afriche e orienti», IX, n. 1, pp. 96-115.

Triulzi, A. [2009], Il cerchio e la scuola, «Lo Straniero», XI, n. 107, pp. 28-32.

Triulzi, A. [2013], Listening and Archiving Migrant Voices. How It All Began, in U. Engel , M.J. Ramos (a cura di), African Dynamics in a Multipolar World, Brill, Leiden, pp. 51-66.

Verhaegen, B. [1974], Introduction à l’histoire immédiate. Essai de méthodologie qualitative, Gembloux, Duculot.

Wieviorka, A. [1998], L’ère du témoin, Paris, Plon; trad. it. L’era del testimone, Milano, R.   Cortina, 1999.


[i] Perec e Bober [1995; trad. it. 2017, 37-38]. Una prima versione di questo saggio è stata redatta per il volume Schriftlose Vergangenheiten. Die Geschichtsschreibung an ihrer Grenze – von der Frühen Neuzeit bis in die Gegenwart, a cura di Lisa Regazzoni [2019].

[ii] La mobilità transnazionale, erroneamente vista sotto il profilo dell’emergenza, è uno dei fattori caratterizzanti la storia immediata o del tempo presente [Verhaegen 1974; Soulet 2007] che sta cambiando immaginari, identità e sguardi incrociati di ‘nativi’ e ‘stranieri’ residenti sul suolo europeo. Sul tema si veda il recente saggio di Donatella Di Cesare [2017].

[iii] L’iniziativa è stata sostenuta, particolarmente agli inizi, dalla Fondazione lettera27, ora Moleskine. Si veda «Confini-AMM: Focus sui migranti», moleskinefoundation.org/it/initiative/borders-amm/ (ultimo accesso 14 marzo 2019).

[iv] A partire dalla privacy di ogni persona a rischio e del loro «diritto all’opacità» rivendicato da Edouard Glissant [2007].

[v] Dodici anni dopo, il 23 agosto 2017, la stessa sorte toccava ai rifugiati eritrei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa i quali, pur avendo ottenuto la ‘protezione’ del governo italiano e la celebrazione del 3 ottobre come giornata nazionale delle vittime della immigrazione dal Parlamento italiano, sono stati sloggiati con la forza da uno stabile vicino alla Stazione Termini a Roma, che avevano occupato in assenza di sistemazione a quattro anni di distanza dal naufragio (http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/08/24/news/sgombero_migranti_in_piazza_indipendenza_tensione_bombole_ga s_e_sassi_contro_la_polizia-173746055/).

[vi] Oltre ai volontari e agli operatori didattici di Asinitas, il gruppo fondatore di AMM comprendeva uno storico africanista (chi scrive), un regista migrante rifugiato dall’Etiopia (Dagmawi Yimer), un esperto di comunicazione e di mappe del disagio giovanile (Giulio Cederna), un antropologo che aveva scritto la sua tesi di dottorato sui corpi  migranti sbarcati a Lampedusa (Gianluca Gatta), una docente di italiano che aveva lavorato sulle testimonianze dei sopravvissuti di Mauthausen all’Università di Salisburgo (Monica Bandella), un fotografo siciliano free lance (Mario Badagliacca).

[vii] Si veda Archivio Memorie Migranti, Equilibrio (8’), L’Albero (8’), Buongiorno (10’), Viaggio Senza Ritorno (7’), regia di Dagmawi Yimer, montaggio Fabrizio Barraco, coordinamento audiovisivi Giulio Cederna e Angelo Loy, produzione Asinitas Onlus, con il sostegno di lettera27 e della Tavola Valdese, 2009.

[viii] La filmografia prodotta da AMM è sul sito www.archiviomemoriemigranti.net/film/.

[ix] Successivamente, Zakaria ha partecipato al film Lampedusa del regista austriaco Peter Schreiner (https://www.echtzeitfilm.at/films/lampedusa/) pur continuando la sua collaborazione a video partecipativi di AMM e suoi personali.

[x] Per maggiori dettagli http://www.archiviomemoriemigranti.net/film/produzioni-amm/ (ultimo accesso 14 marzo 2019).

[xi] Si veda il documentario Asmat-Nomi (2015) in onore delle vittime del naufragio del 3 ottobre 2013 girato da Dagmawi Yimer a Lampedusa in collaborazione con il Comitato 3 ottobre (vimeo.com/114849871. Ultimo accesso 19 marzo 2019), o il video partecipativo Nako-La terra (2016) girato da Stefania Muresu con un gruppo di richiedenti asilo di un centro di accoglienza a Sarule in Sardegna (vimeo.com/181494992. Ultimo accesso 19 marzo 2019).

[xii] Si veda il sito www.arte.it/calendario-arte/roma/mostra-oggetti-migranti-dalla-traccia-alla-voce-37631 (ultimo accesso 14 marzo 2019).

[xiii] Si veda la descrizione sul sito www.archiviodiari.org/index.php/iniziative-e-progetti/dimmi.html (ultimo accesso 14 marzo 2019). Le 10 storie finaliste del concorso DiMMi sono state pubblicate dall’Editore Terre di Mezzo (2018).

[xiv] A fine 2017 il progetto di estensione delle scritture migranti a livello nazionale è stato finanziato con un fondo  dell’Agenzia di Sviluppo del Ministero degli Esteri dedicato a iniziative di sensibilizzazione e educazione alla cittadinanza globale con il contributo di 46 soggetti istituzionali e associazioni della società civile. Il testo del bando è consultabile all’indirizzo www.info-cooperazione.it/wp-content/uploads/2017/07/BandoECG.2017.pdf (ultimo accesso 14 marzo 2019).

[xv] Barbara Harrell-Bond ha fondato e diretto il Refugee Studies Centre dell’Università di Oxford dal 1982 al 1996.

[xvi] È famosa l’immagine dell’antropologo austriaco, Bronislaw Malinowski, ritratto mentre legge un libro davanti alla sua tenda nelle Trobriand con un gruppo di nativi che lo guardano attoniti in disparte. Si veda Malinowski [1967], e Geertz [1973].

[xvii] Il 24 dicembre 2017 il Senato della Repubblica cancellava definitivamente il diritto di 800.000 figli di stranieri residenti in Italia di ottenere la cittadinanza non approvando la legge cosiddetta dello jus soli «per mancanza di numero legale» (http://www.corriere.it/politica/cards/ius-soli-che-cosa-sarebbe-successo-se-senato-avesse-votato-ddl/tredici- anni-discussioni_principale.shtml, ultimo accesso 18 marzo 2019).

[xviii] Si veda il «reato» di solidarietà impiegato in Francia contro chi aiuta o favorisce l’immigrazione irregolare

(www.internazionale.it/notizie/2017/02/10/cedric-herrou-francia-migranti e il contro-appello alla solidarietà www.cncdh.fr/fr/publications/la-solidarite-nest-pas-un-delit, ultimo accesso 18 marzo 2019) espresso dalla società civile; in Italia, la campagna di demonizzazione dei supposti «crimini di solidarietà» commessi dalle ONG nel corso delle operazioni di salvataggi dei barconi migranti alla deriva nel Mediterraneo ha preceduto l’accordo di respingimento dei migranti affidato dal governo italiano al governo libico (www.theguardian.com/world/2017/jul/03/anger-at-rules- plan-for-migrant-charities-in-mediterranean; www.theguardian.com/world/2017/oct/03/italys-deal-to-stem-flow-of- people-from-libya-in-danger-of-collapse, ultimo accesso 18 marzo 2019).

[xix] Si veda Gatta [2010], Gatta e Muzzopappa [2012], Triulzi [2013], le testimonianze dei migranti sui loro viaggi verso

Lampedusa [Mazzara 2016, 227-243], e le testimonianze di ragazzi somali registrate da Yimer nel Centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto (C.A.R.A. Italia, Yimer 2009, www.archiviomemoriemigranti.net/c-a-r-a-italia, ultimo accesso 18 marzo 2019).

[xx] Si vedano le testimonianze di Dagmawi Yimer, Zakaria Mohamed Ali e Mahamed Aman in Mazzara [2016, 227- 243].

Alessandro Triulzi

Alessandro Triulzi ha insegnato per anni Storia dell’Africa sub-sahariana all’Università Orientale di Napoli; raccoglie voci, suoni e immagini autoprodotte per l’Archivio delle memorie migranti di Roma.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.