Al momento stai visualizzando Le diaspore iniziano a organizzarsi
al centro Ahmed Diabate, segretario di "Diaspora africana" di Modena

Sono venuto a conoscenza dell’esistenza di un’associazione di nome “Diaspora africana”, un gruppo di mutuo aiuto di giovani africani che vivono a Modena e provincia, quando alla fine di una lezione di italiano ho sentito un paio di miei studenti maliani che si davano appuntamento all’assemblea del giorno dopo.

Due cose mi hanno immediatamente incuriosito: il nome dell’associazione e una certa circospezione nei miei confronti nel momento in cui ho chiesto di poter partecipare a una loro riunione. Il nome, perché rispetto a “profughi”, “rifugiati”, “richiedenti asilo”, “titolari di protezione internazionale” o “ragazzi” (per citare alcune delle etichette che, per ostilità o per filantropia, appiccichiamo loro addosso), “diaspora”, letteralmente “dispersione”, mi sembra una categoria che meglio descrive la condizione dei giovani migranti che in questi anni arrivano in Europa dai quattro angoli della terra. Una categoria più aderente alla realtà, più ricca di storia, più complessa, più contraddittoria, come la situazione in cui si trovano a vivere.

La circospezione, perché in un sistema di accoglienza come il nostro la cui essenza è costituita da un misto di controllo e protezione (la discrezionalità xenofoba della burocrazia che regola la vita dei richiedenti asilo e la suadenza pedagogica degli operatori, per lo più operatrici, che si occupano di loro), una certa riservatezza sospettosa nei confronti di noi attivisti bianchi mi sembra la condizione necessaria su cui provare a costruire relazioni autentiche (anti retoriche) e alleanze politiche efficaci.

La prima assemblea di “Diaspora africana” a cui ho assistito mi ha lasciato una forte impressione. L’appuntamento era in un appartamento di Modena che ho poi scoperto essere il Cas (Centro di accoglienza straordinaria) in cui viveva uno dei soci dell’associazione. Le assemblee, come le chiamano, avvenivano di volta in volta in un appartamento diverso. Oggi non più, per le ragioni che dirò tra poco. La stanza in cui si svolgeva la riunione, completamente spoglia, solo un vecchio tavolo in linoleum con sopra un paio di bottiglie d’acqua e una ventina di sedie rimediate dagli appartamenti vicini, si è via via stipata di giovani africani tra i venti e i trent’anni, ben più numerosi delle sedie a disposizione, quasi tutti di provenienza francofona, che hanno iniziato a discutere in maniera molto ordinata sui quattro punti all’ordine del giorno: il problema della casa per chi usciva dall’accoglienza e non sapeva dove andare a dormire; la segnalazione di un corso di formazione professionale gratuito che sarebbe partito da lì a breve; la quota associativa (di 3 euro al mese) da far confluire nella cassa comune; i problemi che alcuni di loro vivevano con le cooperative che li avevano in carico.

Oggi non si trovano più negli appartamenti: è stato fatto capire loro che ospitare estranei, anche per riunioni come le loro, infrange gli accordi stipulati tra gli enti gestori e la prefettura, e può essere un motivo sufficiente per la revoca dell’accoglienza.

Non so come crescerà “Diaspora”. A sentire Ahmed Diabatè, il segretario ventisettenne di origine ivoriana che ha rilasciato le dichiarazioni che seguono, l’associazione vive le stesse difficoltà di tutte le nostre associazioni: la precarietà lavorativa ed esistenziale dei soci e di conseguenza una loro partecipazione inevitabilmente incostante; la mancanza di una sede e la scarsità dei mezzi; la difficoltà a coniugare istanze di solidarietà con una pressione politica che abbia una qualche efficacia.

Certo, a vedere tutte quelle facce giovani, severe e vitali, capaci di ritrovarsi a discutere intorno a problemi concreti come la casa, il lavoro, i permessi, la disoccupazione, le nuove disposizioni di legge, il far fronte alla malattia o alla morte dei propri cari, vedere da vicino tutto questo mi ha ricordato alcuni tratti dell’associazionismo operaio delle origini. Società di mutuo soccorso, leghe di resistenza, case del popolo, camere del lavoro, università popolari, movimento cooperativo: in tutte queste organizzazioni l’elemento della mutualità, del reciproco soccorso, era altrettanto importante del momento della rivendicazione. Da molti anni ormai, partiti, sindacati, chiese, ma anche le nostre associazioni, le nostre riviste, i nostri centri sociali, non sanno più cosa voglia dire mutualismo e forse anche per questo le rivendicazioni sono così fiacche, inefficaci, quando non completamente fuori bersaglio.

Se sottolineo questo non è per nostalgia di un passato che ha poche attinenze col presente, ma perché nell’inconsapevolezza di molti suoi giovani soci, “Diaspora africana” è l’embrione di una cellula sociale che ha molto da insegnare anche alle nostre associazioni, esangui e senza idee. Nell’attuale dibattito sull’immigrazione, tutto schiacciato sugli effetti discriminatori delle leggi italiane sull’immigrazione che, dalla Turco-Napolitano fino al recente “Decreto Salvini”, passando per la Bossi-Fini e la Minniti, producono emarginazione, clandestinità, criminalità e sfruttamento dell’uomo sull’uomo, critiche sacrosante, sia chiaro, ci si dimentica però di un altro effetto, non meno “scandaloso”, contro cui i membri di “Diaspora africana” si stanno facendo buoni anticorpi: l’infantilizzazione, la dipendenza assistenzialistica, in sostanza lo spreco di vita, intelligenza e umanità che imponiamo ai giovani immigrati in cambio della nostra ambigua “accoglienza”. “Diaspora africana”, per ora, ha deciso di non limitarsi a rivendicare i diritti che sono negati ai loro giovani soci, ma di provare, al contempo, a dare una risposta ai problemi quotidiani che li riguardano. Se continueranno su questa strada credo che anche il conflitto che li attende dietro l’angolo, come attende tutti noi, sarà più autentico ed efficace. Il vantaggio che hanno su di noi è che sanno di essere diaspora. Noi, quando ce ne renderemo conto? (Luigi Monti)

ottobre 2018, Nonantola, scuola di italiano “Frisoun”

Pezzi d’Africa in Europa

“Diaspora africana” è nata un anno fa, nel febbraio del 2018, da un’altra associazione che si chiamava “Modena’s refugees”. Avevamo costituito “Modena’s refugees” per provare a risolvere alcuni dei problemi che molti migranti vivevano nelle strutture e nei progetti d’accoglienza: il problema dei contributi (pocket money) che non arrivavano mai regolarmente, i tempi lunghissimi per andare in commissione, i tempi altrettanto lunghi e “fuori legge” con cui la questura rinnovava i permessi per richiesta asilo. E soprattutto il rifiuto da parte dei comuni in cui molti di noi vivevano a rilasciare la carta d’identità.

Questi sono i motivi che inizialmente ci hanno unito. E la primavera scorsa, quando “Diaspora africana” non esisteva ancora, abbiamo organizzato una manifestazione molto partecipata per chiedere con forza l’iscrizione anagrafica di tutti i richiedenti asilo inseriti in un percorso di accoglienza. Un diritto che non ci siamo inventati noi, ma che i comuni della provincia di Modena, in accordo con le cooperative, non volevano concedere. Un po’ come si è rimesso a fare Salvini in queste settimane.

Vedere tutti quei ragazzi in strada mi è sembrata una cosa meravigliosa. Eravamo circa trecento. Non si era mai vista a Modena una manifestazione così grande organizzata da ragazzi africani. A fare sensibilizzazione eravamo in sei. Di giorno e di notte andavamo nei Cas della provincia per dire che il 15 maggio, giorno della manifestazione, dovevamo uscire per dire basta a quello che stavamo vivendo. Molti ragazzi pensavano che fosse normale quello che invece normale non era.

La manifestazione non solo è stata bella, ma è riuscita a sbloccare la questione dell’iscrizione anagrafica e, per un po’, gli appuntamenti per i rinnovi dei permessi. A quel punto una parte di noi ha pensato: adesso che abbiamo ottenuto la carta d’identità, basta. Abbiamo avuto la residenza, a tutto il resto penserà Dio. Qualcuno altro invece ha capito meglio, proprio in quel momento, che non tutta la vita gira intorno ai progetti d’accoglienza, che i problemi non finiscono con la carta d’identità e nemmeno con un permesso di soggiorno. I problemi riguardano la vita normale, se mai ci arriveremo ad avere una vita normale: il lavoro, la salute, la possibilità di spostarsi, il diritto ai servizi pubblici… insomma quella che normalmente viene chiamata “l’integrazione”.

Alcuni soci di “Diaspora” vivono qui da molto tempo, alcuni anche da 10 o 20 anni. Loro sono per così dire i nostri fratelli maggiori, conoscono meglio noi, che abbiamo vissuto solo nelle strutture di accoglienza, cosa significa stare in piedi sulle proprie gambe in un paese che non è il nostro. Alcuni hanno già la cittadinanza, come il nostro presidente Dieudonné Guilavogui, ad esempio. È questa una delle ragioni per cui abbiamo deciso di cambiare nome. Non ci sentivamo più solo “migranti” o “richiedenti qualche cosa”. Il viaggio era finito. E noi non siamo tutti rifugiati. Qualcuno lo diventerà, qualcuno no. Ci sentiamo piuttosto un pezzo di Africa in Europa. Per questo abbiamo deciso di chiamarci “Diaspora africana”.

gennaio 2019, Modena, centro sociale “Guernica”

Mutuo aiuto

Uno dei problemi più grandi in questo periodo è quello della casa. Non sempre, quando ottieni la risposta della commissione hai un posto dove andare a dormire. I soci che vivono in Italia da molti anni, ad esempio, ci aiutano a trovare una stanza da affittare se all’uscita dall’accoglienza non abbiamo ancora un tetto sulla testa. Qualche volta ci ospitano direttamente a casa loro. Almeno per il tempo necessario a trovare un lavoro e i soldi per pagare un affitto. E con il decreto Salvini il problema della casa diventerà presto enorme. Le cooperative saranno costrette a scaricare su di noi i tagli ai finanziamenti e liberare le case sarà per loro un problema sempre più urgente.

Un altro aiuto che cerchiamo di darci è nella ricerca del lavoro. Quelli di noi che hanno la fortuna di avere un buon lavoro, quando si libera un posto lo dicono subito agli altri. Ci aiutiamo anche nella ricerca di corsi di formazione gratuiti. Alcuni di noi fanno regolarmente ricerca su internet e quando trovano corsi interessanti, il presidente va alla scuola, prende informazioni, i moduli per l’iscrizione e li porta ai soci il giorno dell’assemblea. Negli ultimi mesi abbiamo procurato il lavoro a tre ragazzi. Cinque soci hanno avuto accesso alla formazione professionale gratuita. Non è molto, ma il Centro per l’impiego non fa tanto meglio.

Attualmente siamo circa settanta soci più altri che ogni tanto passano alle nostre riunioni. Per essere iscritti bisogna pagare una quota mensile che finisce in una cassa comune, 3 euro obbligatori al mese.

I soldi servono per i problemi più grandi. La maggior parte di noi vive a Modena senza genitori, senza parenti. L’unica famiglia che abbiamo è il legame che c’è tra di noi. Dico sempre ai miei compagni: il primo fratello è quello con cui vivi. Non chi sta dall’altra parte del mare, il fratello che ti ha dato tua madre, ma quello che dorme sotto il tuo stesso tetto: è lui adesso il tuo primo fratello. È di lui che ti devi prendere cura.

Quando uno di noi ha un problema, ognuno fa del suo meglio per dargli un po’ di denaro. E quando manca qualcosa lo prendiamo dalla cassa per aggiungerlo a quello che siamo riusciti a prendere dalle nostre tasche. Anche quando uno di noi perde un amico o un parente e vuole andare nel suo paese per dare l’addio a questa persona, l’associazione ha l’obbligo di aiutarlo per l’acquisto del biglietto o a mandare una piccola somma per il funerale. L’abbiamo scritto nello statuto.

Chi come me lavora non ha molte energie da dedicare all’associazione, ma quelle poche le metto tutte lì, anche per questioni apparentemente meno importanti ma che nel complesso pesano molto sulla nostra vita e che marcano la differenza tra noi e gli italiani. Penso ad esempio alla patente. Recentemente siamo riusciti a trovare un accordo con un’autoscuola di Modena che presentandoci in un certo numero ha abbassato di molto la quota per l’iscrizione a scuolaguida, portandola da oltre mille euro a circa settecento.

L’80 per cento dei soci è richiedente asilo, il 20 per cento ha già il documento e sta lavorando. Questo è un elemento fondamentale, che cercheremo di rinforzare. È importante che gli immigrati di vecchia data aiutino quelli arrivati da poco. Così com’è essenziale che nelle situazioni di lotta a essere in prima fila siano quelli giuridicamente più tutelati. La maggior parte di noi è di origine francofona, veniamo dalla Costa d’Avorio, dal Mali, dal Burkina Faso, dal Senegal. Questo non perché abbiamo delle chiusure nei confronti di altri paesi, ma perché è difficile, nelle assemblee, comunicare in altre lingue che non siano il francese. E così si crea una “selezione naturale” che prima o poi sarebbe bello superare.

dicembre 2018, Modena, comunità di base del “Villaggio”

Quando è il momento di dire basta

I nuovi arrivati fanno a volte due anni e mezzo o tre prima di avere una risposta dalla commissione che deve giudicare la loro domanda d’asilo. La maggioranza passa questo tempo in casa, senza fare niente, senza imparare niente. Al massimo va al Cpia per i corsi di italiano. È questo secondo me il problema principale. Ci sono alcuni che aspettano il permesso per andare fuori dall’Italia, altri lo aspettano per lavorare, altri semplicemente perché la testa non riesce a pensare altro. Ma che senso ha il permesso di soggiorno se nel frattempo non inizi a vivere? Un permesso, per di più, che alla fine del percorso arrivava solo nel 40% dei casi e che adesso, con Salvini, non arriverà quasi più per nessuno.

Altri problemi sono legati al lavoro e ai rinnovi dei permessi, quelli per richiesta asilo, che scadendo ogni sei mesi non ti permettono di firmare o rinnovare contratti con una certa regolarità. In questi ultimi mesi sembra che il mercato del lavoro si stia un po’ muovendo. Abbiamo visto più di venti soci che hanno trovato un lavoro durante l’ultimo anno. Il problema è che i permessi scadono, i tempi per il rinnovo sono lunghissimi, e a volte il lavoro sfugge insieme alla scadenza del permesso.

Quando chiedi di rinnovare il permesso di soggiorno le cooperative dicono: vieni con una promessa di contratto del tuo datore di lavoro e noi lo facciamo vedere alla questura che ti darà un appuntamento più velocemente. Ma il datore di lavoro non aspetta tutto questo tempo e questi giri. Fuori dalla sua fabbrica ha una fila di persone che chiedono di essere assunte.

Le organizzazioni che gestiscono l’accoglienza rifiutano ogni tipo di responsabilità, dicono che non dipende da loro: è la questura che dà gli appuntamenti, ci dicono, noi dobbiamo limitarci ad andare al Centro stranieri e prenotarli. Ma quando vai da solo, gli operatori del Centro stranieri dicono di tornare con il tuo educatore. In questi anni è capitato che la questura desse gli appuntamenti per il rinnovo anche sette, otto mesi dopo la scadenza del permesso, quando praticamente il nuovo permesso, se fosse stato pronto, sarebbe risultato già scaduto al momento del ritiro.

È assurdo che ci sia bisogno di tutti questi passaggi per ottenere un normalissimo permesso per richiesta asilo, qualcosa che dovrebbe avvenire in automatico. Senza contare che con il permesso scaduto non puoi stipulare contratti, non puoi firmare affitti, non puoi usufruire della tessera sanitaria… Insomma, ti ritrovi a girare da un ufficio all’altro e a vivere nell’ombra. Oggi ci dimentichiamo che queste follie non nascono da Salvini, ma dalle istituzioni dello stato, ministeri, questure, prefetture, comuni e dalle cooperative che sono al loro servizio. Salvini ha trovato la strada spianata.

Un altro problema molto grande secondo me è la passività di molti ragazzi, che aspettano anche due o tre anni senza fare nulla, senza prendere in mano la situazione, senza lottare. A volte preferiscono rimanere a guardare dicendo che Dio sistemerà tutte le cose: se Dio mi ha messo in questa situazione è lui che mi tirerà fuori. Noi cerchiamo di far capire ai nostri compagni che sono loro che si devono svegliare, darsi da fare e, quando necessario, combattere per i propri diritti.

Questo è un po’ difficile da mettere nella testa di alcuni. Molti di noi capiscono, conoscono i propri diritti e sanno combattere per ottenerli, altri, è brutto dirlo, sono ignoranti, altri ancora pensano che se si arrabbiano con il loro operatore rischiano di andare “fuori”. Hanno paura della strada, è questo il punto. Per questo preferiscono rimanere a casa e limitarsi a fare quello che dice la cooperativa, anche quando è contro i loro interessi. Certo fa paura, ma quello che cerco di ripetermi e di dire ai miei amici è che tanti, prima di noi, sono passati dalla strada. E sono sopravvissuti.

Noi diciamo sempre ai ragazzi di non avere paura, perché quando sei nel giusto nessuno ti può costringere a lasciare la via buona per quella cattiva… Devi seguire la tua strada, se sei sicuro che sia la migliore per te. Ognuno di noi sa quello che è bene per lui. Per questo, quando vedi che qualcuno sta giocando con te, a un certo punto devi avere la forza di dire “basta”.

La situazione che molti di noi stanno vivendo in questi anni deve spingerci a stare insieme, a unirci per ottenere quello che ci sembra più giusto. Nessuno di noi, da solo, può fare qualcosa. Quando una sola persona “si alza” per andare in questura a chiedere chiarimenti non ci sarà nessuna risposta. Ma se siamo venti, trenta persone loro prima chiamano i carabinieri, ma se noi rimaniamo fermi, prima o poi ascoltano quello che abbiamo da dire. Questo l’abbiamo sperimentato diverse volte davanti alla questura di Modena. Come sempre sono venuti i carabinieri e gli abbiamo detto: vogliamo incontrare la prefetta e alla fine la prefetta è uscita e le abbiamo parlato. Quando siamo stati solidali dei piccoli risultati li abbiamo ottenuti. Almeno fino ad ora.

Autonomia

Nel complesso possiamo dire che siamo soli. Ci sono alcuni italiani che ci sostengono e ci hanno dato una mano nelle iniziative pubbliche, come alcuni ragazzi del centro sociale “Guernica” o come un giovane prete, Mattia Ferrari, che si è speso molto per alcuni di noi. Ma nel complesso cerchiamo di mantenere la nostra autonomia.

Devo dire che ho trovato anche tante brave operatrici delle cooperative che pur lavorando nei progetti, sanno anche quello che nel progetto non funziona, e ci danno una mano. Quando ad esempio c’è stata la manifestazione, lo scorso anno, le cooperative non vedevano di buon occhio la nostra partecipazione, ma ci sono state alcune operatrici che di loro iniziativa ci hanno chiamato per darci dei consigli e per dirci dove stare attenti.

Uno dei ragazzi che ha organizzato la manifestazione per la carta d’identità ha subito molte pressioni dalla sua cooperativa, che alla fine l’ha cacciato dall’accoglienza. Ma “Diaspora” non l’ha lasciato da solo. Quando l’hanno mandato fuori, abbiamo organizzato alcune manifestazioni, siamo andati davanti alla questura e alla fine sono andato insieme a lui a parlare con la prefetta. Siamo rimasti davanti alla questura per due giorni, ma non è servito a nulla. Allora abbiamo parlato con i ragazzi dell’associazione, ognuno di noi ha dato 5 euro, abbiamo messo insieme quasi 700 euro e questo ragazzo ha potuto pagare un avvocato. È andato a vivere da un amico e con l’avvocato ha proseguito l’iter della richiesta asilo, ha già fatto la commissione e ha ottenuto un permesso per motivi umanitari. E nel frattempo ha trovato un lavoro.

Altri sono usciti di propria iniziativa dai progetti di accoglienza, hanno preso i soldi che spettano loro al momento dell’uscita, tutti i contributi arretrati, e se ne sono andati via, in molti casi all’estero, sapendo che sarebbero rimasti irregolari a vita. Arrivati a un certo punto, tutto diventa molto molto faticoso. Prova a immaginare: c’è chi lascia la famiglia, il figlio o la moglie, viene qua con l’idea di una vita migliore, e quando arriva vede che tutto quello che si immaginava non corrisponde per niente alla realtà. Dopo un po’ sembra di finire in un labirinto senza uscite. Giri da tutte le parti, sbatti la testa di qua e di là, uffici, moduli, formazioni, scuola di italiano… ma non c’è mai alcun cambiamento. Un anno, due anni, tre anni: non hai fatto la commissione, non lavori e a casa, magari, hai una moglie, un figlio o dei genitori che chiedono aiuto… Come si può vivere così? Rischi di andare fuori di testa.

La risposta della commissione dovrebbe arrivare trenta giorni dopo l’intervista. Ma capita di aspettare anche sei mesi o di più, prima di avere il risultato. Conosco alcuni che hanno aspettato un anno, per poi avere una risposta negativa. Il ragazzo che fa il tesoriere per l’associazione aspetta la risposta da circa due anni. E quando arriva una risposta negativa, altri lunghi mesi per aspettare l’esito del ricorso. In pratica possono passare anche quattro anni.

Allora ogni tanto qualcuno non ce la fa più e va dire al capo della cooperativa: basta, io vado via. E il capo risponde: ok, passa la prossima settimana che ti do i tuoi soldi. Capisco le esigenze della cooperativa, che non è un ente di beneficienza, ma mi chiedo come sia possibile parlare in questo modo a una persona disperata. Sanno che queste persone non sono in condizioni normali. Condizioni che per tuo figlio non accetteresti mai. Quelli che escono dal progetto potrebbero portare avanti la richiesta d’asilo da soli, ma la maggior parte, una volta usciti, se ne va dall’Italia, con l’idea di non tornare più.

Chi fa parte di “Diaspora Africana” ha qualche chance in più di chi non ha reti intorno a sé. Non tanto per i documenti, su quelli possiamo farci poco, ma per tutto il resto, che non è meno importante. Lo dico sempre ai ragazzi che vengono qui la prima volta. Voi sapete meglio di me che in Italia non avete amici o familiari a cui appoggiarvi. Il mio consiglio è di far parte di un’associazione. Perché l’associazione rappresenta per voi la vostra difesa. Da soli è difficile sbloccare le cose. Per sbloccare le cose bisogna essere in tanti. Non per forza “Diaspora africana”. Se conoscete un’altra associazione che vi piace, non esitate, andate a chiedere il motivo per cui stanno insieme e se il motivo vi convince, fatene parte anche voi. Un giorno vi potranno dare una mano. Da soli è difficile stare a galla in questa Italia. E lo sarà sempre di più.

Ahmed Diabate

Ahmed Diabate (diabatedolieme@gmail.com) ha 28 anni, è nato a Daloa, in Costa d'Avorio. Vive a Modena da circa tre anni e lavora come metalmeccanico. È segretario dell'associazione "Diaspora africana".

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