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"Wafa", il cinema più vecchio di Addis Abeba (della fine del XIX secolo), conosciuto anche come "La casa del diavolo"

Circa quarant’anni fa, il documentario inglese The Unknown Famine, svelando i contorni di un dramma a molti ignoto, portò di colpo l’Etiopia al centro dell’attenzione internazionale, contribuendo al tempo stesso all’esplosione di una rivolta popolare che finì per causare la deposizione dell’imperatore Haile Selassie e l’inizio della dittatura comunista del Derg. Per molti, le immagini che quel documentario ha portato alla ribalta, immagini di povertà e disperazione, sono ancora le uniche a venire alla mente quando l’Etiopia viene evocata. Al tempo stesso, le immagini di quel documentario sono ancora fresche nella memoria di molti politici etiopi, ma per ragioni ben diverse. Da allora, infatti, il cinema e i media sono guardati dalla classe politica del paese con sospetto: sono armi che possono rovesciare governi e trasformare i destini di nazioni intere.

Oggi l’Etiopia è uno dei paesi africani con il tasso di crescita economica più alto del continente, e la produzione cinematografica, da quindici anni a questa parte, è aumentata in modo esponenziale, ma i registi e i produttori etiopi devono ancora, in un modo o nell’altro, venire a patti con la strana eredità lasciata da quel lontano documentario sulla carestia. Bisogna riconoscerlo, il documentario in questione per molti versi ha avuto un ruolo fondamentale nel far conoscere al mondo il dramma della carestia etiope, e spingere la comunità internazionale all’azione. Ma il suo effetto è andato ben oltre i suoi iniziali obbiettivi, lasciando dietro di sé tracce ancora influenti sul modo in cui l’Etiopia viene rappresentata e vista sul piano internazionale.

Sia chiaro, la storia del cinema in Etiopia va molto più in là degli anni settanta, e al momento in cui The Unknown Famine veniva girato, uno dei classici del cinema etiope, Guma, del regista etiope/greco Michael Papatakis, veniva presentato con grande successo nelle sale di Addis Abeba. In Etiopia, fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, avevano avuto luogo alcune delle prime proiezioni cinematografiche mai tenutesi sul suolo africano, le cui tracce sono ancora visibili nella toponomastica urbana, con nomi come “Seitan bet” (“La casa del diavolo”) ancora lì a indicare l’edificio e l’intero quartiere nel quale, secondo la memoria orale locale, la prima proiezione della storia del cinema etiope ha avuto luogo nonostante la forte opposizione del clero ortodosso. E ancora, nei primi anni ’60, il produttore indipendente Ilala Ibsa, commerciante eccentrico che vendette tutto per produrre il suo primo (e unico) film, e inscrivere così nella storia il proprio nome come produttore del primo lungometraggio mai prodotto da un etiope, si esprimeva con fervore sulle pagine dei principali quotidiani locali per difendere il diritto del cinema a raccontare una realtà urbana diversa e distante da quella, tutta intrisa di tradizione e valori nazionalistici, cui il regime al potere faceva riferimento in ogni cerimonia pubblica. Hirut, Abtwa Manewn, il film di Ibsa, è infatti la storia di una donna che, per far fronte alle difficoltà della vita di Addis Abeba, finisce per farsi prostituta, e attraverso la sua esperienza svela poco a poco le contraddizioni dell’Etiopia dell’epoca, un paese che, nonostante i progetti di modernizzazione infrastrutturale voluti dall’imperatore, si voleva per l’appunto ortodossa e ancorata ai valori della tradizione, e nella quale invece la modernità occidentale si era infiltrata in modo rapido e inaspettato, dando vita a inattesi quanto affascinanti risultati.

Un fotogramma del documentario inglese “The Unknown Famine”

Ma torniamo al documentario inglese e alla sua inattesa eredità sul cinema etiope di oggi. Se, infatti, una delle motivazioni principali fra quelle che spingono i giovani registi etiopi contemporanei verso il mondo del cinema è legata alla volontà di sovvertire quell’immagine di miseria e squallore che film come The Unknown Famine hanno contribuito a propagare (e che il termine “Etiopia” fa ancora sorgere nell’immaginario di molte persone in giro per il mondo), si trovano costretti a farlo in uno spazio politico che nutre verso i media e il loro potenziale espressivo un atavico sospetto. E qui, agli occhi di molti di quelli che il cinema, nell’Etiopia di oggi, tentano a tutti i costi di farlo, investendo i propri risparmi e le proprie forze, si trova uno dei problemi principali cui il cinema in Etiopia deve far fronte.

Dopo la produzione di film che, come quelli citati poco fa (Hirut e Guma), hanno marcato la nascita di una produzione cinematografica etiope indipendente, il cinema in Etiopia ha attraversato anni difficili. La rivoluzione del ’74 ha segnato un’iniziale ondata di ottimismo, con giovani registi e intellettuali intenti a celebrare le grandi promesse del socialismo. Ma con la violenta repressione voluta, solo tre anni dopo, dal generale Mengistu Haile Mariam (il triste periodo ricordato come “Red Terror”), l’entusiasmo si è rapidamente raffreddato. I giovani che in quegli anni si sono avvicinati al cinema, lo hanno spesso fatto per sfuggire alla repressione del regime e trovare un’opportunità per dare spazio alla propria creatività, seppur restando alle dipendenze del governo. La televisione e le sale cinematografiche sono state nazionalizzate, e la programmazione è divenuta puramente propagandistica. I più fortunati e preparati, come lo stesso Michael Papatakis, Tafese Jara, Getachew Terreken, e ancora Deseta Tadesse, Taferi Bezuayo, Berhanu Shiberu e Abeba Kasala, hanno avuto la possibilità di andare a studiare in Russia, solo per trovarsi, una volta rientrati, a produrre soprattutto, e a loro malgrado, filmati propagandistici di elogio al regime filosovietico.
Salvo l’eccezione data dalla produzione, nei primi anni ’90, del film Aster, diretto da Solomon Bekele Weya, poco o nulla è cambiato fino al crollo del Derg, nel 1992, e durante i primi anni del nuovo regime. Con il cambio di governo, infatti, il nuovo potere ha rapidamente messo alla porta i pochi tecnici qualificati attivi nella produzione televisiva e cinematografica, considerati come minacciosi residui del passato, e ha dato spazio, in molti casi, a persone che venivano dall’esperienza della guerriglia più che da quella della produzione cinematografica. Quest’opera di (cieco) rinnovamento è arrivata fino al paradossale punto di vendere all’asta in modo sommario le costose e rare attrezzature cinematografiche accumulate durante il governo del Derg, fra cui una cinepresa 35mm e i materiali per lo sviluppo della pellicola, attrezzature che qualsiasi regista etiope, e africano in generale, all’epoca come oggi sognerebbe di poter avere a disposizione.

Ma, nonostante questo quadro apparentemente buio, le cose hanno progressivamente preso un’altra piega con l’introduzione, nel panorama etiope, delle nuove tecnologie analogiche e digitali. Dai primi anni ’90 filmati a basso costo di spettacoli teatrali, girati in videocassetta, hanno cominciato a essere prodotti dai principali distributori locali di cassette musicali, trasformatisi per l’occasione in produttori cinematografici. Poco dopo i primi film di finzione, distribuiti anch’essi in videocassetta, hanno cominciato a fare la loro comparsa. Ma il vero boom si è avuto nei primi anni 2000, quando i pochi cinema ancora aperti ad Addis Abeba, tutti di proprietà del governo, hanno accettato di mostrare film prodotti localmente. Il successo è stato dirompente. Se provate a chiedere anche soltanto a un passante quale film abbia segnato l’inizio della rinascita del cinema etiope, ad Addis Abeba tutti vi parleranno di Kazkaza Welafegn, un film prodotto e diretto nel 2003 da Theodros Teshome, giovane figlio di produttori di caffè di Jimma, nel Sud del paese, emigrato ad Addis per fare fortuna e rapidamente entrato nel mondo della produzione.

Questo video, girato con pochi soldi con l’obbiettivo di problematizzare la questione dell’AIDS, ma finito per essere, agli occhi di molti, una specie di elogio del dongiovannismo in salsa etiope, non è stato certo il primo film a essere girato in digitale e mostrato nei cinema della capitale, ma senza dubbio è stato il primo a ottenere un successo prorompente, facendo capire a molti altri imprenditori culturali attivi all’epoca, tra i quali Sarawit Fikr, Tesfaye Mamo e Tatek Tadesse, che l’ora del successo era finalmente arrivata.

Da allora il cinema etiope è esploso. Fra il 2004 a-e il 2014, per esempio, quasi 600 film sono stati prodotti, di cui quasi un quinto solo nel 2013. Numerosi registi di talento sono emersi, dai più prolifici, come Henoch Ayele, Biniam Worku e Yonas Berhane Mewa, ai più artisticamente intransigenti, come Yidnekachew Shumete e Paulos Regassa. Il numero delle sale cinematografiche è aumentato in modo esponenziale, e ad Addis Abeba si è passati dalle tre/quattro sale pubbliche ancora aperte nei primi anni 2000 a una ventina di cinema, sia privati che pubblici, di cui molti multisala. Festival cinematografici (come il “Colours of the Nile International Film Festival” e l’ “Ethiopian Internationl Film Festival”), cerimonie di premiazione (come i “Guma Awards”) e scintillanti film premiere delle ultime uscite, riempiono l’agenda culturale della città, le facce delle principali star popolano le prime pagine dei settimanali culturali, e i muri della capitale sono affollati di poster che annunciano l’imminente uscita di un nuovo film. Passeggiando per la capitale, non è raro imbattersi in lunghe file di giovani in attesa di comprare un biglietto per andare a vedere l’ultimo successo locale, e i film indiani e occidentali che fino a pochi anni fa dominavano il panorama cinematografico etiope, sono ormai quasi del tutto scomparsi dalla circolazione.

Contrariamente ad altri paesi africani come la Nigeria, la Tanzania e il Ghana, nei quali la produzione cinematografica emersa negli ultimi anni è rimasta principalmente legata al consumo home-video, in Etiopia la sala cinematografica la fa da padrone. Si tratta di un fenomeno non solo culturale, ma anche di costume. Andare al cinema per i giovani abitanti di Addis Abeba fa parte di una serie di attività che testimoniano la loro progressiva emancipazione dalla povertà, e l’acquisizione di un nuovo status sociale.

I tempi delle piccole, rumorose e affollate sale di proiezione illegali, costruite alle spalle dei negozi di video, nelle quali, per quattro soldi, era possibile assistere alla proiezione di una copia pirata di un film di Hollywood o di Bollywood, su una televisione alimentata da un generatore elettrico, sembrano ormai lontani. Non che posti del genere siano scomparsi dal panorama dei quartieri più poveri di Addis, o di altre piccole e medie città etiopi, ma le nuove grandi sale cinematografiche rappresentano il futuro, sono il simbolo di una nuova prosperità di cui i giovani etiopi sono affamati.

Il cinema “Empire”, uno dei più grandi di Addis Abeba

Al cinema si va spesso in coppia, per trovare un angolo di intimità in una società che guarda di cattivo occhio qualsiasi effusione amorosa pubblica; ci si va con amici per ridere e commentare ad alta voce, durante la proiezione, le battute dell’attore preferito; ci si va per potersi poi sedere di fronte a una birra e discutere degli insegnamenti morali che il film appena visto è riuscito a offrire. In Etiopia come in molti altri contesti africani, infatti, il cinema e la televisione sono visti da molti come strumento educativo, e una parte fondamentale del piacere di vedere un film, è quello di dibattere, nelle ore successive, il suo valore didattico.

Con i membri dell’associazione “Allatinos”, l’associazione dei giovani registi etiopi, ho avuto molte discussioni di questo genere. Dopo le loro regolari riunioni, che si tengono tutti i giovedì sera al centro culturale russo (retaggio di un tempo in cui una borsa di studio russa costituiva l’unica speranza di riuscita per un giovane aspirante regista etiope), ci si sedeva intorno a un caffè o a una birra, e ci si confrontava sul contenuto del film appena visto, sui suoi aspetti tecnici, sul suo potenziale creativo e artistico. Ed è grazie a queste discussioni che ho potuto farmi un’idea delle speranze e dei sogni di questa nuova generazione di giovani, ma anche delle sue paure e frustrazioni. Si tratta di giovani che, contrariamente a molti loro coetanei, non hanno nessuna intenzione di lasciare l’Etiopia. Vogliono restare, partecipare alla rinascita economica e culturale del paese, una rinascita che vedono come disuguale e a tratti estranea, ma il cui corso sperano di poter influenzare in modo più equo e democratico. Sono loro che mi hanno confessato la loro frustrazione per la posizione in cui il cinema è stato relegato all’interno del contesto politico ed economico etiope di oggi.

La mancanza di fondi di sostegno alla formazione (le scuole di cinema sono una rarità nel panorama etiope) e alla produzione artistica (tutta l’economia dell’industria è unicamente basata su fondi privati) obbliga i giovani registi a inseguire il successo commerciale e i gusti della ristretta cricca di proprietari di cinema e di pubblicitari, interessati al profitto più che alla sperimentazione artistica. Così molti dei film finiscono per avere trame simili e riprodurre gli stessi generi (melodrammi e commedie romantiche su tutti) e il cinema etiope fatica a farsi un nome che vada al di là dei confini nazionali. Questo gioco fa comodo al governo, che ancora fatica a farsi un’idea del vero potenziale economico di questo crescente settore, e che quindi preferisce mantenerlo sotto scacco, limitandone lo spettro narrativo e creativo attraverso le costrizioni imposte dalla penuria di fondi, e la manipolazione di un diffuso quanto attentamente architettato senso dell’autocensura.

Che immagine dell’Etiopia ci propone allora questo nascente cinema, così incastrato fra competizione commerciale e controllo politico? Ci offre un’immagine che indubbiamente sovverte l’immagine di povertà veicolata dallo stereotipo di un’Etiopia “terra di carestie”, ma lo fa segnalando, implicitamente ed esplicitamente, quelli che sono ancora i limiti della crescita economica che l’Etiopia ha vissuto negli ultimi anni. Ci mostra un’Etiopia più ricca e sicura di sé, ma attraverso quello che non può dirci, attraverso le disuguaglianze sociali, politiche ed economiche che è obbligato a nasconderci, punta il dito verso i limiti ancora significativi di questa crescita. Ci ricorda, come il documentario inglese di quarant’anni fa, che le élites politiche del paese sono ancora spesso sorde a molte delle richieste e dei bisogni della popolazione etiope. Ma attraverso la sua energia esplosiva, riesce forse dare a queste richieste una nuova espressione. Resta solo da augurarsi che a essa venga dato, un giorno, l’ascolto che gli è dovuto.

(Questo articolo è uscito sul n. 63-64, maggio-giugno 2019, de “Gli asini”)

Alessandro Jedlowski

Alessandro Jedlowski (alessandro.jedlowski@gmail.com) è ricercatore in antropologia culturale all’Università di Liegi in Belgio e docente a contratto di Storia dell’Africa all’Università di Torino. Negli ultimi anni la sua ricerca si è concentrata principalmente sull’analisi delle dimensioni economiche e politiche dei media africani, in particolare in Nigeria, Costa d’Avorio e Etiopia e sui fenomeni migratori dall’Africa verso l’Italia e dall’Africa verso paesi asiatici come l’India e la Cina.

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