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Le strade del mondo si è nutrita in questi anni del confronto con gruppi, amici e persone che si pongono domande simili alle nostre e che si sentono per questo parte di una stessa area di analisi e di intervento. La lettera che segue, firmata dalle insegnanti e operatrici di Asnada,  che fin dall’inizio pensano la formazione insieme a noi, apre una serie di scambi e di commenti in dialogo tra di loro, nati intorno e in preparazione alla prossima edizione della scuola di formazione. Ne seguiranno altri.

 

Care colleghe e cari colleghi,

abbiamo provato a sintetizzare in forma piuttosto schematica – e speriamo chiara – alcune riflessioni scaturite fra noi grazie alla scuola di formazione Le strade del mondo, Nonantola. Volentieri le condividiamo.

 

Chi siamo

Donne con diversa formazione accademica e professionale, coinvolte in qualità di socie e/o di lavoratrici nell’associazione Asnada (Milano).

 

Lavoratrici o volontarie?

Entrambe le cose, sia perché alcune sono pagate e altre no, sia perché chi è pagato (poco) svolge comunque mansioni a titolo gratuito e mantiene alto il livello professionale grazie a molte ore di volontariato.

 

Lavoratrici o militanti?

Vorremmo essere entrambe le cose, ma assai raramente ci riusciamo. Essere troppo schiacciate sull’aspetto professionale ci fa perdere la dimensione politica del nostro operato; considerarci solo militanti ci fa dimenticare la necessità di inquadrare l’operare all’interno delle relazioni economiche e di potere tipiche del mercato del lavoro, in fase di forte sgretolamento come tutte le istituzioni.

 

La scuola per operatori di Nonantola

 

Come la percepiamo

La scuola Le strade del mondo è un luogo/tempo di fiducia in cui le persone sanno che troveranno risorse ma anche contenimento, ascolto, mediazione. È un luogo dove ci si capirà. È un luogo di formazione per tutti – cioè anche per coloro che vengono chiamati in qualità di formatori e/o esperti – e che, soprattutto a partire dal secondo anno, si è caratterizzato per lo scambio costante e di qualità fra tutti partecipanti (inclusi i formatori/esperti), anche nei momenti informali. Forse ci si attende da questa scuola una dimensione profetica, vale a dire la nascita di un nuovo mito, di una nuova visione del mondo, di un’utopia in cui credere e per la quale costruire nel presente.

 

Bisogni rilevati nei precedenti anni

  • avere un luogo dove portare la propria rabbia e la propria frustrazione (soprattutto il primo anno: la scuola come luogo di ascolto);
  • trovare un luogo dove la propria professionalità abbia ascolto e riconoscimento;
  • condividere con altri il crescente disagio rispetto alla propria posizione (sia di lavoratori che di militanti che di volontari) di fronte all’evidente fascistizzazione della società;
  • ridefinire i confini del proprio operato professionale;
  • avere uno spazio neutro (diverso quindi dalle pur esistenti riunioni di equipe o incontri di supervisione) dove portare le proprie inquietudini e le proprie riflessioni, al riparo da conflitti con i colleghi/superiori;
  • riflettere sulla tendenza, assai diffusa nel nostro mondo, a sentirsi “piccoli eroi in un mondo crudele e perverso”.
  • costruire relazioni che facciano sentire meno soli;
  • rimpolpare il proprio bagaglio formativo attingendo al gruppo di lavoro e agli esperti;
  • accrescere le proprie capacità, anche relazionali, attraverso la sperimentazione in prima persona (laboratori manuali, tecniche teatrali, canto eccetera);
  • accrescere la propria capacità di lettura (giuridica, ma non solo) delle situazioni.

 

Obiettivi possibili per il terzo anno

  • sperimentare tecniche di dialogo e discussione efficaci, lavorando su dispositivi in piccolo gruppo;
  • operare attraverso strumenti di mediazione (incluso il rapporto con le istituzioni);
  • istituire la contrattualità come base della relazione di aiuto, intesa come funzione di negoziazione, di compromesso, di chiarezza, di pari responsabilità nei processi decisionali. Non Salvatori e Vittime, non Persecutori e Vittime, non Assistenti e Assistiti, bensì adulti che fanno dei patti, che concordano degli obiettivi, che escludono delle strade e ne scelgono altre;
  • rimpossessarsi della capacità di costruire relazioni/battaglie significative per tutti, che aiutino tutti a uscire dallo stallo, anche mentale, in cui ci ha precipitato il sistema d’accoglienza;
  • trovare strumenti/modalità affinché “i singoli uccelli” sparsi sul territorio nazionale possano diventare di tanto in tanto “stormi” (che è un dispositivo) capaci di attraversare e forse anche scuotere le zone più aride (spiritualmente e politicamente parlando) del paese;
  • individuare e fare pratica di tecniche di lotta politica (ad esempio quelle relative alla disobbedienza civile) valutandone oggettivamente rischi, fattibilità, step, verifica;
  • riflettere sulla paura della strada (dall’intervista a Diaspora Africana).

 

Strumenti che possono aiutare l’educatore/operatore sociale/insegnante di lingua.

  • Incontri con attivisti/associazioni migranti;
  • incontro con esperti di altri paesi, altre lingue, altri orizzonti culturali, specifiche discipline, anche in forma di supervisori (come nella seconda edizione);
  • sperimentazione di dispositivi di discussione (ad esempio modalità Actions,
  • Pedagogia Istituzionale (strumento che consente di triangolare le relazioni fra le persone e il processo di istituzionalizzazione all’interno di un gruppo; e istituisce nuove forme di distribuzione del potere facendo nascere al contempo una profonda riflessione sul potere stesso. Infine è uno strumento assai efficace per la presa di decisioni collettive).
  • il fare artigianale
  • la dimensione corporea (canto, teatro)
  • lo specchio del testo (strumento di analisi profonda di un testo di esperienza pedagogica messo a punto da Federica Lucchesini)
  • l’inchiesta territoriale

 

Il tempo

La strutturazione del tempo è di fondamentale importanza. Via via che le ore trascorrono, aumenta la stanchezza ma anche il bisogno di avere momenti per gli scambi informali. È importante prevedere tempi vuoti e predisporre una giusta alternanza fra momenti corporei, artigianali e di parola.

Per altro, la riflessione sul tempo potrebbe essere materia stessa di formazione, vista la dilatazione del tempo che vivono coloro che entrano nel sistema di accoglienza e ne escono spesso senza aver alcun strumento utile, e le brutali accelerazioni dovute ai dinieghi o alle uscite repentine dai centri.

 

Con chi parliamo? Ovvero: quale lingua usiamo?

Lavorare in questo ambito, e volersi confrontare realmente con persone di origine straniera, significa riflettere su quale lingua usare. Per quale lingua non facciamo riferimento al francese piuttosto che all’inglese o allo swahili, ma a quale tipo di italiano (quali parole, quante parole, quale sintassi, quali strumenti di facilitazione/mediazione e così via) affidarsi per consentire anche a chi non è ancora addentro a un italiano fluido di essere parte dei gruppi di pensiero. Nella nostra esperienza, di tutto si può parlare, anche con poca lingua, purché ci si dia il giusto tempo, gli argomenti siano di effettivo interesse di tutti e ci si doti di strumenti e dispositivi di mediazione. Spesso proprio la scarsità di mezzi linguistici costringe ad operare scelta drastiche di priorità (e anche di “pulizia” delle tantissime parole inutili che usiamo), a tutto vantaggio della concretezza del pensiero collettivo nascente. C’è un urgente bisogno di interlocutori capaci di ascolto, capaci di “creolizzare” la propria lingua, di risignificare parole date per scontate, di stare in piccoli gruppi dove trasmettere il messaggio implicito che c’è posto per tutti, purché esigano riflettere sulla loro presenza nel mondo (e nel gruppo stesso). La disponibilità di tali interlocutori, se costante e continua, contiene e placa, e consente anche nuove fioriture, come uno spazio gestazionale.

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