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Nella sua lettera dal Belgio, Alessandro Jedlowski mette in luce la chiave di tutto quello che può e deve portarci “oltre l’accoglienza”: i processi migratori di questi anni e le pratiche, ampiamente discutibili, di accoglienza hanno messo comunque in movimento anche la curiosità, l’interesse all’altro come soggetto portatore di una storia, di storia. Solo rimettendo al centro soggetti e soggettività, come categoria politica, qualcosa cambia e i diritti tornano al centro. L’incontro con l’altro ha creato reti di relazione tra individui, ci ha costretti a dis/imparare, e l’unlerning è stato un fattore di cambiamento fondamentale ogni volta che la storia ha portato sulla scena soggettività politiche nuove – femminismo, movimenti giovanili, lotte sociali prodotte da cambiamenti economici profondi – Ma è un discorso complicato perché bisognerebbe ripensare a un’idea di cultura, di economia, di professione, di servizi che dagli anni Ottanta, secondo me, sta devastando la centralità della persona in nome di una presunta efficienza, di paradigmi di segmentazione, controllo, razionalizzazione che da anni permeano tutti i servizi, il sistema educativo, la medicina, a scapito della complessità che nasce dall’incontro con il singolo individuo, i suoi desideri e i suoi diritti. E le radici sono lontane, la sinistra stessa non è stata buona generatrice di una cultura dei diritti nel Novecento. Dicendo questo penso alle leggi razziali, alla persecuzione contro gli ebrei e alla risposta debole soprattutto dei comunisti; o alla rimozione dei crimini coloniali, solo per fare alcuni esempi.

In questi giorni mi è tornata in mano una lettera degli anni Ottanta di mio marito in cui scriveva che, rispetto al suo lavoro di psichiatra, aveva deciso di abbracciare idee piuttosto che ideologie perché le seconde portavano anche i meglio intenzionati a perdere di vista gli individui, i loro bisogni e le loro potenzialità.

È esattamente quello che oggi temo. Dobbiamo lottare per cambiare la normativa sugli spostamenti delle persone, aprire i confini, estendere i diritti sociali e politici, ma intanto non dobbiamo perdere di vista chi si trova nel limbo (per non dire di chi si trova nell’inferno). I lavoratori dell’accoglienza – e qui mi sembra centrale lo scritto di Mimmo Perrotta e Savino Reggente – spesso mi sembrano smarriti, incapaci di una reazione politica, divisi tra senso di precarietà e impegno quotidiano, che per chi segue le nostre scuole è anche impegno intellettuale e politico. Ma molti richiedenti asilo e rifugiati sono ancora più smarriti e rabbiosi.

Quelli che abbiamo apprezzato perché capaci di costruirsi una vita in Germania o in Francia, anche con la sola protezione umanitaria (secondo Fausto Stocco dal 2011 a oggi potrebbero essere diverse centinaia di migliaia), tornano per il rinnovo e spesso non riescono a convertire la protezione umanitaria in permesso per motivi di lavoro perché le questure applicano il decreto Salvini; gli danno un foglio di via e devono fare ricorsi, cercarsi avvocati – che spesso non sono preparati a questo nuovo tipo di cause. Tutta la debolezza che viene dal non aver saputo costruire reti di informazione, resistenza e di mutualismo tra loro e tra “noi” e loro, gli cade addosso. Chi invece era al sud si compra finti contratti da mafiosi e caporali. In questi giorni persone arrivate nel 2011 sono furiose perché non capiscono questa macchina infernale che rischia di distruggere le loro vite. Molti dicono che non potranno tornare in Austria o in Germania perché anche lì le cose stanno cambiando e i controlli sono continui.

Speriamo che qualcosa cambi, che una sanatoria li liberi dalle trappole dell’accoglienza, ma fino a quando non ci saranno fatti nuovi credo occorra garantire diritti e vederli come soggetti con i quali fare azioni politiche e legali e non come destinatari di buone azioni.

Occorre dar parola a loro, a chi è qui da anni e a chi è ancora in accoglienza, ai loro interrogativi e alla loro angoscia, ai loro sogni. Occorre ascoltare, imparare ad ascoltare, occorre forse dis/imparare le nostre categorie politiche e costruirne insieme delle altre. Aiutandoci reciprocamente a restare fedeli a noi stessi, alla nostra individualità profonda, che, a differenza dei sistemi ideologici, spesso è ibrida, incoerente, impura: una risorsa se, come dice il titolo del libro di James Clifford, I frutti puri impazziscono.

Maria Bacchi

Maria Bacchi (ariaduemila@gmail.com) fa ricerca e scrive sui temi della storia dell’infanzia nelle guerre del Novecento. Fa parte del comitato scientifico di Fondazione Villa Emma, del gruppo di progettazione di "Le strade del mondo" e di quello di “Onere della conoscenza”. Si occupa – come attivista dello “Sportello diritti” dello spazio sociale La Boje e di Mantova Solidale – di questioni legate alle migrazioni, alle storie e ai diritti dei richiedenti asilo.

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